Benedetto XVI: visita al Seminario Romano Maggiore, alla vigilia della Festa della Madonna della Fiducia

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In quest’Anno Sacerdotale, vogliamo essere particolarmente attenti alle parole del Signore concernenti il nostro servizio. Il brano del Vangelo ora letto parla indirettamente, ma profondamente, del nostro Sacramento, della nostra chiamata a stare nella vigna del Signore, ad essere servitori del suo mistero.

In questo breve brano, troviamo alcune parole-chiave, che danno l’indicazione dell’annuncio che il Signore vuole fare con questo testo. “Rimanere”: in questo breve brano, troviamo dieci volte la parola “rimanere”; poi, il nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”, “Non più servi ma amici”, “Portate frutto”; e, finalmente: “Chiedete, pregate e vi sarà dato, vi sarà data la gioia”. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad entrare nel senso delle sue parole, perché queste parole possano penetrare il nostro cuore e così possano essere via e vita in noi, con noi e tramite noi.

La prima parola è: “Rimanete in me, nel mio amore”. Il rimanere nel Signore è fondamentale come primo tema di questo brano. Rimanere: dove? Nell’amore, nell’amore di Cristo, nell’essere amati e nell’amare il Signore. Tutto il capitolo 15 concretizza il luogo del nostro rimanere, perché i primi otto versetti espongono e presentano la parabola della vite: “Io sono la vite e voi i rami”. La vite è un’immagine veterotestamentaria che troviamo sia nei Profeti, sia nei Salmi e ha un duplice significato: è una parabola per il popolo di Dio, che è la sua vigna. Egli ha piantato una vite in questo mondo, ha coltivato questa vite, ha coltivato la sua vigna, protetto questa sua vigna, e con quale intento? Naturalmente, con l’intento di trovare frutto, di trovare il dono prezioso dell’uva, del vino buono.

E così appare il secondo significato: il vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore ha creato il suo popolo per trovare la risposta del suo amore e così questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale, è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, vuole entrare in una relazione d’amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il popolo da lui eletto.

Ma poi la storia concreta è una storia di infedeltà: invece di uva preziosa, vengono prodotte solo piccole “cose immangiabili”, non giunge la risposta di questo grande amore, non nasce questa unità, questa unione senza condizioni tra uomo e Dio, nella comunione dell’amore. L’uomo si ritira in se stesso, vuole avere se stesso solo per sé, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così, la vigna viene devastata, il cinghiale del bosco, tutti i nemici vengono, e la vigna diventa un deserto.

Ma Dio non si arrende: Dio trova un nuovo modo per arrivare ad un amore libero, irrevocabile, al frutto di tale amore, alla vera uva: Dio si fa uomo, e così diventa Egli stesso radice della vite, diventa Egli stesso la vite, e così la vite diviene indistruttibile. Questo popolo di Dio non può essere distrutto, perché Dio stesso vi è entrato, si è impiantato in questa terra. Il nuovo popolo di Dio è realmente fondato in Dio stesso, che si fa uomo e così ci chiama ad essere in Lui la nuova vite e ci chiama a stare, a rimanere in Lui.

Teniamo presente, inoltre, che, nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, troviamo il discorso sul pane, che diventa il grande discorso sul mistero eucaristico. In questo capitolo 15 abbiamo il discorso sul vino: il Signore non parla esplicitamente dell’Eucaristia, ma, naturalmente, dietro il mistero del vino sta la realtà che Egli si è fatto frutto e vino per noi, che il suo sangue è il frutto dell’amore che nasce dalla terra per sempre e, nell’Eucaristia, il suo sangue diventa il nostro sangue, noi diventiamo nuovi, riceviamo una nuova identità, perché il sangue di Cristo diventa il nostro sangue. Così siamo imparentati con Dio nel Figlio e, nell’Eucaristia, diventa realtà questa grande realtà della vite nella quale noi siamo rami uniti con il Figlio e così uniti con l’amore eterno.

“Rimanete”: rimanere in questo grande mistero, rimanere in questo nuovo dono del Signore, che ci ha reso popolo in se stesso, nel suo Corpo e col suo Sangue. Mi sembra che dobbiamo meditare molto questo mistero, cioè che Dio stesso si fa Corpo, uno con noi; Sangue, uno con noi; che possiamo rimanere – rimanendo in questo mistero – nella comunione con Dio stesso, in questa grande storia di amore, che è la storia della vera felicità. Meditando questo dono – Dio si è fatto uno con noi tutti e, nello stesso tempo, ci fa tutti uno, una vite – dobbiamo anche iniziare a pregare, affinché sempre più questo mistero penetri nella nostra mente, nel nostro cuore, e sempre più siamo capaci di vedere e di vivere la grandezza del mistero, e così cominciare a realizzare questo imperativo: “Rimanete”.

Se continuiamo a leggere attentamente questo brano del Vangelo di Giovanni, troviamo anche un secondo imperativo: “Rimanete” e “Osservate i miei comandamenti”. “Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo.

L’etica è conseguenza dell’essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere.

Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere, attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita.

Segue, poi, questo nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”. Nessun amore è più grande di questo: “dare la vita per i propri amici”. Che cosa vuol dire? Anche qui non si tratta di un moralismo. Si potrebbe dire: “Non è un nuovo comandamento; il comandamento di amare il prossimo come se stessi esiste già nell’Antico Testamento”. Alcuni affermano: “Tale amore va ancora più radicalizzato; questo amare l’altro deve imitare Cristo, che si è dato per noi; deve essere un amare eroico, fino al dono di se stessi”. In questo caso, però, il cristianesimo sarebbe un moralismo eroico. E’ vero che dobbiamo arrivare fino a questa radicalità dell’amore, che Cristo ci ha mostrato e donato, ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui: il Signore ci ha dato se stesso, e il Signore ci ha donato la vera novità di essere membri suoi nel suo corpo, di essere rami della vite che è Lui. Quindi, la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come ho detto, il nuovo agire.

San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo datoci nel Sacramento del Battesimo, nella Cresima, e datoci ogni giorno nella Santissima Eucaristia. I Padri qui hanno distinto “sacramentum” ed “exemplum“. “Sacramentum” è il dono del nuovo essere, e questo dono diventa anche esempio per il nostro agire, ma il “sacramentum” precede, e noi viviamo dal sacramento. Qui vediamo la centralità del sacramento, che è centralità del dono.

Procediamo nella nostra riflessione. Il Signore dice: “Non vi chiamo più servi, il servo non sa quello che fa il suo padrone. Vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Non più servi, che obbediscono al comando, ma amici che conoscono, che sono uniti nella stessa volontà, nello stesso amore. La novità quindi è che Dio si è fatto conoscere, che Dio si è mostrato, che Dio non è più il Dio ignoto, cercato, ma non trovato o solo indovinato da lontano. Dio si è fatto vedere: nel volto di Cristo vediamo Dio, Dio si è fatto “conosciuto”, e così ci ha fatto amici. Pensiamo come nella storia dell’umanità, in tutte le religioni arcaiche, si sa che c’è un Dio. Questa è una conoscenza immersa nel cuore dell’uomo, che Dio è uno, gli dèi non sono “il” Dio. Ma questo Dio rimane molto lontano, sembra che non si faccia conoscere, non si faccia amare, non è amico, ma è lontano. Perciò le religioni si occupano poco di questo Dio, la vita concreta si occupa degli spiriti, delle realtà concrete che incontriamo ogni giorno e con le quali dobbiamo fare i calcoli quotidianamente. Dio rimane lontano.

Poi vediamo il grande movimento della filosofia: pensiamo a Platone, Aristotele, che iniziano a intuire come questo Dio è l’agathòn, la bontà stessa, è l’eros che muove il mondo, e tuttavia questo rimane un pensiero umano, è un’idea di Dio che si avvicina alla verità, ma è un’idea nostra e Dio rimane il Dio nascosto.

Poco tempo fa, mi ha scritto un professore di Regensburg, un professore di fisica, che aveva letto con grande ritardo il mio discorso all’Università di Regensburg, per dirmi che non poteva essere d’accordo con la mia logica o poteva esserlo solo in parte. Ha detto: “Certo, mi convince l’idea che la struttura razionale del mondo esiga una ragione creatrice, la quale ha fatto questa razionalità che non si spiega da se stessa”. E continuava: “Ma se può esserci un demiurgo – così si esprime -, un demiurgo mi sembra sicuro da quanto Lei dice, non vedo che ci sia un Dio amore, buono, giusto e misericordioso. Posso vedere che ci sia una ragione che precede la razionalità del cosmo, ma il resto no”. E così Dio gli rimane nascosto. E’ una ragione che precede le nostre ragioni, la nostra razionalità, la razionalità dell’essere, ma non c’è un amore eterno, non c’è la grande misericordia che ci dà da vivere.

Ed ecco, in Cristo, Dio si è mostrato nella sua totale verità, ha mostrato che è ragione e amore, che la ragione eterna è amore e così crea. Purtroppo, anche oggi molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l’eterna tentazione del dualismo, che si nasconde anche nella lettera di questo professore, si rinnova sempre, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà. Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?

Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, é potere: il potere dell’amore. E noi possiamo affidarci al suo amore onnipotente e vivere in questo, con questo amore onnipotente.

Penso che dobbiamo sempre meditare di nuovo su questa realtà, ringraziare Dio perché si è mostrato, perché lo conosciamo in volto, faccia a faccia; non è più come Mosé che poteva vedere solo il dorso del Signore. Anche questa è un’idea bella, della quale San Gregorio Nisseno dice: “Vedere solo il dorso vuol dire che dobbiamo sempre andare dietro a Cristo”. Ma nello stesso tempo Dio ha mostrato con Cristo la sua faccia, il suo volto. Il velo del tempio è squarciato, è aperto, il mistero di Dio è visibile. Il primo comandamento che esclude immagini di Dio, perché esse potrebbero solo sminuirne la realtà, è cambiato, rinnovato, ha un’altra forma. Possiamo adesso, nell’uomo Cristo, vedere il volto di Dio, possiamo avere icone di Cristo e così vedere chi è Dio.

Io penso che chi ha capito questo, chi si è fatto toccare da questo mistero, che Dio si è svelato, si è squarciato il velo del tempio, mostrato il suo volto, trova una fonte di gioia permanente. Possiamo solo dire: “Grazie. Sì, adesso sappiamo chi tu sei, chi è Dio e come rispondere a Lui”. E penso che questa gioia di conoscere Dio che si è mostrato, mostrato fino all’intimo del suo essere, implica anche la gioia del comunicare: chi ha capito questo, vive toccato da questa realtà, deve fare come hanno fatto i primi discepoli che vanno dai loro amici e fratelli dicendo: “Abbiamo trovato colui del quale parlano i Profeti. Adesso è presente”. La missionarietà non è una cosa esteriormente aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa. Chi ha visto, chi ha incontrato Gesù, deve andare dagli amici e deve dire agli amici: “Lo abbiamo trovato, è Gesù, il Crocifisso per noi”.

Continuando poi, il testo dice: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il frutto vostro rimanga”. Con questo ritorniamo all’inizio, all’immagine, alla parabola della vite: essa è creata per portare frutto. E qual è il frutto? Come abbiamo detto, il frutto è l’amore. Nell’Antico Testamento, con la Torah come prima tappa dell’autorivelazione di Dio, il frutto era compreso come giustizia, cioè vivere secondo la Parola di Dio, vivere nella volontà di Dio, e così vivere bene.

Ciò rimane, ma nello stesso tempo viene trasceso: la vera giustizia non consiste in un’obbedienza ad alcune norme, ma è amore, amore creativo, che trova da sé la ricchezza, l’abbondanza del bene. Abbondanza è una delle parole chiave del Nuovo Testamento, Dio stesso dà sempre con abbondanza. Per creare l’uomo, crea questa abbondanza di un cosmo immenso; per redimere l’uomo dà se stesso, nell’Eucaristia dà se stesso. E chi è unito con Cristo, chi è ramo nella vite, vive di questa legge, non chiede: “Posso ancora fare questo o no?”, “Devo fare questo o no?”, ma vive nell’entusiasmo dell’amore che non domanda: “questo è ancora necessario oppure proibito”, ma, semplicemente, nella creatività dell’amore, vuole vivere con Cristo e per Cristo e dare tutto se stesso per Lui e così entrare nella gioia del portare frutto. Teniamo anche presente che il Signore dice “Vi ho costituiti perché andiate”: è il dinamismo che vive nell’amore di Cristo; andare, cioè, non rimanere solo per me, vedere la mia perfezione, garantire per me la felicità eterna, ma dimenticare me stesso, andare come Cristo è andato, andare come Dio è andato dall’immensa sua maestà fino alla nostra povertà, per trovare frutto, per aiutarci, per donarci la possibilità di portare il vero frutto dell’amore. Quanto più siamo pieni di questa gioia di aver scoperto il volto di Dio, tanto più l’entusiasmo dell’amore sarà reale in noi e porterà frutto.

E finalmente giungiamo all’ultima parola di questo brano: “Questo vi dico: ‘Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda’”. Una breve catechesi sulla preghiera, che ci sorprende sempre di nuovo. Due volte in questo capitolo 15 il Signore dice “Quanto chiederete vi do” e una volta ancora nel capitolo 16. E noi vorremmo dire: “Ma no, Signore, non è vero”. Tante preghiere buone e profonde di mamme che pregano per il figlio che sta morendo e non sono esaudite, tante preghiere perché succeda una cosa buona e il Signore non esaudisce. Che cosa vuol dire questa promessa? Nel capitolo 16 il Signore ci offre la chiave per comprendere: ci dice quanto ci dà, che cosa è questo tutto, la charà, la gioia: se uno ha trovato la gioia ha trovato tutto e vede tutto nella luce dell’amore divino. Come San Francesco, il quale ha composto la grande poesia sul creato in una situazione desolata, eppure proprio lì, vicino al Signore sofferente, ha riscoperto la bellezza dell’essere, la bontà di Dio, e ha composto questa grande poesia.

È utile ricordare, nello stesso momento, anche alcuni versetti del Vangelo di Luca, dove il Signore, in una parabola, parla della preghiera, dicendo: “Se già voi che siete cattivi date cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre nel cielo darà a voi suoi figli lo Spirito Santo”. Lo Spirito Santo – nel Vangelo di Luca – è gioia, nel Vangelo di Giovanni è la stessa realtà: la gioia è lo Spirito Santo e lo Spirito Santo è la gioia, o, in altre parole, da Dio non chiediamo qualche piccola o grande cosa, da Dio invochiamo il dono divino, Dio stesso; questo è il grande dono che Dio ci dà: Dio stesso. In questo senso dobbiamo imparare a pregare, pregare per la grande realtà, per la realtà divina, perché Egli ci dia se stesso, ci dia il suo Spirito e così possiamo rispondere alle esigenze della vita e aiutare gli altri nelle loro sofferenze. Naturalmente, il Padre Nostro ce lo insegna. Possiamo pregare per tante cose, in tutti i nostri bisogni possiamo pregare: “Aiutami!”. Questo è molto umano e Dio è umano, come abbiamo visto; quindi è giusto pregare Dio anche per le piccole cose della nostra vita di ogni giorno.

Ma, nello stesso tempo, il pregare è un cammino, direi una scala: dobbiamo imparare sempre più per quali cose possiamo pregare e per quali cose non possiamo pregare, perché sono espressioni del mio egoismo. Non posso pregare per cose che sono nocive per gli altri, non posso pregare per cose che aiutano il mio egoismo, la mia superbia. Così il pregare, davanti agli occhi di Dio, diventa un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri. Come dice il Signore nella parabola della vite: dobbiamo essere potati, purificati, ogni giorno; vivere con Cristo, in Cristo, rimanere in Cristo, è un processo di purificazione, e solo in questo processo di lenta purificazione, di liberazione da noi stessi e dalla volontà di avere solo noi stessi, sta il cammino vero della vita, si apre il cammino della gioia.

Come ho già accennato, tutte queste parole del Signore hanno un sottofondo sacramentale. Il sottofondo fondamentale per la parabola della vite è il Battesimo: siamo impiantati in Cristo; e l’Eucaristia: siamo un pane, un corpo, un sangue, una vita con Cristo. E così anche questo processo di purificazione ha un sottofondo sacramentale: il sacramento della Penitenza, della Riconciliazione nel quale accettiamo questa pedagogia divina che giorno per giorno, lungo una vita, ci purifica e ci fa sempre più veri membri del suo corpo. In questo modo possiamo imparare che Dio risponde alle nostre preghiere, risponde spesso con la sua bontà anche alle preghiere piccole, ma spesso anche le corregge, le trasforma e le guida perché possiamo essere finalmente e realmente rami del suo Figlio, della vite vera, membri del suo Corpo.

Ringraziamo Dio per la grandezza del suo amore, preghiamo perché ci aiuti a crescere nel suo amore, a rimanere realmente nel suo amore.

 12-02-2010 Bollettino Sala Stampa de la Santa Sede – Servizi di Informazione in: www.vatican.va