L’atto di credere come “synthesis fidei”

Pe. José Francisco Hernández, EP

1. RAPPORTO FEDE-RAGIONEdoutores-lei

Quale è il rapporto fra il dono di Dio e la ragione umana? La ragione non può essere causa della fede, altrimenti la fede non sarebbe un dono gratuito. La fede non può essere una conclusione tipo 2+2=4. Ci sono tre orientamenti diversi per spiegare questo rapporto:

1.1  Visione analitica, razionalista del rapporto fede-ragione

Questa concezione analizza tutte e due separatamente. La ragione sarebbe una con-causa della fede. È l’atteggiamento della teologia classica.

Secondo l’apologetica classica, con la ragione si può dimostrare la fede. Ma le cinque vie di San Tommaso non sono autonome; si trovano all’interno del trattato su Dio, cioè riguardo a Dio la ragione ha qualcosa da dire. Alla fine di ogni via l’Aquinate scrive: omnes dicunt Deum. Lui non pensa che si possa credere in Dio senza la fede, non fa una filosofia prima. Secondo San Tommaso, dunque, non si può dimostrare Dio con la sola ragione, ma sì la possibilità di Dio.

1.2  Visione dialettica, fideista del rapporto fede-ragione

Il termine dialettica si usa qui in quanto contrapposizione al dialogo. Dio è così forte che non può dialogare con l’uomo. L’esponente paradigmatico di questa corrente è soprattutto Karl Barth. L’importante per un luterano è quello che Dio fa. Quello che l’uomo fa non conta nulla; deve solo accogliere. Da qui il concetto di giustificazione: è soltanto Dio che salva; non ci entrano per nulla le opere dell’uomo.

Invece, la dottrina cattolica dice che ci vuole la collaborazione con la grazia di Dio: la fede senza le opere non salva (Gc 2, 17).

1.3  Visione sintetica del rapporto fede-ragione

Secondo questa visione, il primato ce l’ha il dono di Dio. Quasi tutti i teologi cattolici sono passati dalla visione analitica a questa sintetica. Il dono di Dio è la causa della fede; la ragione ne è soltanto la condizione di possibilità. Non è una visione 1+1=2. Piuttosto corrisponde al senso della parabola del seminatore: se il seme non trova un terreno preparato non germina.

Si dice sintetica non perché sia la sintesi fra due elementi (le due correnti sopraccitate), ma perché è la sintesi di tutta la realtà, è la visione globale che racchiude tutta la realtà umana.

Non si tratta, dunque, di due piani staccati: fede e ragione, ma interconnessi. Con la fede, la ragione vede di più, viene potenziata. Il dono di Dio è illuminante. C’è un ruolo epistemologico illuminativo della fede: l’amore è più amore, l’amicizia è più amicizia. Ma anche il peccato è più profondo anche. Si può stabilire un’analogia con la unione ipostatica delle due nature, umana e divina, in Gesù Cristo: l’umanità di Gesù è nella sua pienezza perché ha il Verbo di Dio sostanzialmente unito ad essa; il primato però ce l’ha il Verbo di Dio.

2. ELEMENTI DELL’ATTO DI FEDE

Vogliamo qui analizzare l’atto di fede, l’atto di credere, come in un laboratorio. Possiamo dire che esso ha due elementi fondamentali:

2.1  L’atto di fede come dono di Dio

Il dono di Dio ha due funzioni, «gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito» (DV 5):

2.1.1  La fede come illuminazione

Il dono di Dio ha una funzione illuminativa. Il Mistero Pasquale è il grande segno del cristianesimo. Lumen Christi: Il Risorto è presente tra di noi come Luce che illumina il senso ultimo della vita; la sua ultima parola non è stata la morte, la croce, ma la luce, la risurrezione. Questo aspetto si può rilevare in diversi brani dell’Antico come del Nuovo Testamento (soprattutto Ef 1,18). Anche San Tommaso si riferisce ad esso quando dice: «Per lumen fidei vident esse credenda» (II-IIae, q. 1 a. 5 ad 1) e quando si riferisce alla «oculata fides» (III, q. 55 a. 2 ad 1).

2.1.2  La fede come orientamento vissuto, personale e comunicativo (DV 5.8; LG 12)

Il dono di Dio non illumina soltanto dall’esterno, ma incide sul cuore, sul centro della persona e, quindi, illumina il senso di tutta la vita della persona. Chi non ha fede può magari pensare che la dottrina cattolica è una regola morale buona, interessante, ma non si sentirà spinto a regolare la sua intera vita da essa.

2.2  L’atto di fede come atto umano

Per la fede, «l’uomo gli si abbandona [a Dio] tutt’intero e liberamente» (DV 5).

2.2.1  Praeambula fidei

Sono i “preamboli della fede”. È la “via preparatoria della fede” (FR 67). Si tratta di un’espressione coniata dalla Scolastica che vuol dire che la ragione è un preambolo per la fede. Nella teologia classica, i praeambula fidei avevano un ruolo fondamentale, forte; erano chiari, si sapeva con chiarezza quali erano. Nella società postmoderna tutto è più sfumato e, quindi, non è chiaro quali siano i preamboli della fede. Né la filosofia classica né l’Illuminismo erano relativisti come lo è la cultura postmoderna. La postmodernità è la prima volta nella Storia che non si sa bene come si debba fare questo dialogo tra fede e ragione. quaranta anni fa era chiaro che bisognava studiare Kant e Marx per capire la società di allora. C’è stata molta discussione su questo concetto perché può essere capito in due sensi:

– come preambula logica (non crono-logica, temporale);

– come condizione di possibilità. È questa l’interpretazione attuale nella teologia fondamentale. Sono le condizioni di possibilità per essere credente. La parabola del seminatore, come accennato prima, illustra in modo adeguato questo concetto: la terra deve essere preparata perché il seme possa fruttificare. La ragione è il soggetto della fede. Dio ha voluto il dono della libertà umana, anche se essa possa essere condizionata da tanti fattori. Non si tratta, dunque, di condizioni di possibilità soltanto teoretiche ma anche pratiche. Nella pastorale, quello che si fa è creare condizioni di possibilità per la fede.

Il n. 67 dell’enciclica Fides et Ratio parla di quattro condizioni di possibilità della fede:

a) La conoscenza naturale di Dio

Se uno non ha una apertura verso la possibilità che ci sia Dio, non crederà mai.

b) La possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel riconoscimento della sua credibilità

Se non si ammette la possibilità che Dio intervenga nella Storia e abbia lasciato delle tracce concrete, non si può aver fede.

c) La capacità del linguaggio umano di parlare in forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana

Un positivista del linguaggio dirà che il linguaggio non può esprimere Dio. È vero che Dio non si può concettualizzare tutto. Se non ci fosse la analogia non potremmo fare teologia; noi parliamo di Dio con un linguaggio analogico, comparativo. Questo argomento ha a che fare con temi scottanti oggi come oggi: semiologia, semiotica moderna.

d) La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte

È la ricerca sul senso della vita. Se uno non si domanda sul senso della vita vedrà la fede come una semplice regola morale.

2.2.2  Ratio fidei

Cosa fa un credente quando un non credente gli chiede ragione della sua fede? Solvere rationes, confutare le ragioni: non bisogna dimostrare la fede ma mostrarla, cioè smontare le ragioni dell’altro, mostrare che non sono ragioni consistenti. San Tommaso non farebbe mai quello che ha fatto l’Illuminismo: separare fede e ragione, neanche avrebbe mai usato la figura della Fides et Ratio (le due ali), perché non si tratta di due ali autonome l’una dall’altra in senso stretto. La ragione è il soggetto della fede, ma è un soggetto che può chiudersi alla fede. Quindi, quando la Fides et Ratio parla di autonomia bisogna capire bene il termine.

2.2.3  Apertura o comunicabilità della ragione

La ragione aperta è la struttura interiore – più che previa o posteriore – dell’atto di credere. La fede cioè presuppone una ragione aperta. Ci sono diverse denominazioni:

– la ragione vista come ragione vitale (Ortega y Gasset / Gómez Caffarena). Include l’intuizione, l’amore, tutta la persona, tutta la vita. È per ragione vitale che si fanno le scelte importanti nella vita.

– la ragione vista come ordine degli affetti (Sequeri). Nel suo trattato di fede, dice che la ragione da un ordine a tutto quel complesso vitale.

– la ragione vista come ragione comunicativa (Habermas). Lui sottolinea che la dimensione comunicativa non può essere dimenticata, poiché la persona umana non è soltanto azione e sfera privata. È anche importante l’amore, l’amicizia, l’etica, il volontariato, ecc.

– la ragione come ragione sapienziale (FR 81, quindi, Giovanni Paolo II). È una ragione sensitiva. Ad esempio, i Padri hanno una teologia sapienziale, molto legata nel loro caso, alla liturgia, e molto legata al cuore.

– la ragione come ragione ampia (J. Ratzinger). Doppia domanda: da dove? da dove vengo? (Origine); verso dove? verso dove vado? (Termine). In fondo, si tratta della domanda di senso.

2.3  Verso una sintesi

Ci sono diverse formulazioni che cercano di articolare il rapporto tra fede e ragione:

2.3.1  Punto di partenza:  “la interazione tra fede e ragione” (FR cap. VI)

Circolarità tra fede e ragione. Intuitivamente si potrebbe capire così: quando si muove l’una, si muove anche l’altra. Ma la fede illumina la ragione e ne da il tesoro, ci insegna ad essere veramente uomini.

2.3.2  “L’argomentazione cumulativa” (Illative sense) di J. H. Newman

Newman aveva in mente rispondere ai positivisti. L’assenso nella vita umana non è soltanto nozionale (2+2=4) ma reale: le grandi scelte della vita, ecc. Quindi, la fede non è primariamente un assenso nozionale ma soprattutto reale, vitale.

L’assenso reale si fa attraverso un senso illativo, una argomentazione cumulativa. Bisogna collegare gli indizi. La ragione umana non è un qualcosa di meramente nozionale ma ha una componente intuitiva. Si tratta di un positivismo aperto. Altri nominativi importanti su questa scia sono A. Dulles, H.J. Pottmeyer e W. Kasper.

2.3.3  “Les yeux de la foi” (P. Rousselot)

Essi «rendono possibile la conoscenza della credibilità». La fede cioè ha anche i suoi occhi. La grazia non toglie la natura ma le da la sua forza.

Questa visione ha suscitato una grande polemica all’inizio del s. XX perché sembrava protestante, troppo fideista. H.U. v. Balthasar si sentiva discepolo di Rousselot ed è stato colui che ha contribuito di più alla riabilitazione del suo maestro. Fisichella si trova anche su questa scia.

2.3.4  Teologia trascendentale

«L’affinità tra la rivelazione e la realizzazione piena della vita». In questa scia si trovano: K. Rahner, H. Fries, B. Welte ed altri. Si tratta di mettere in relazione trascendentale il dono di Dio e la ragione umana.

Per Rahner, in concreto, la ragione umana si sintetizza in tre domande: vale la pena amare? vale la pena morire? vale la pena sperare in un futuro?

2.3.5  Personalismo

«L’opzione fondamentale dell’atto di credere». In questa corrente si trovano: J. Alfaro, M. Seckler ed altri. La fede non è una cosa in più ma è qualcosa che tocca il nocciolo della persona umana. Tutto si fa intorno a questa opzione fondamentale.

2.3.6  Conclusione

«La convergenza di senso» (STh III, q. 55, a. 6 ad 1). ;Newman, K.Rahner, H.Verweyen, H.Wagner, Swinburne,SPN).

3. LA CREDIBILITÀ COME “PROPOSTA DI SENSO” TEOLOGICA, STORICA E ANTROPOLOGICA

La credibilità, come proposta sensata portatrice di senso, pieno e definitivo, parte dalle due istanze basilari dalle quali trae la sua ragion di essere: l’istanza teologica – dalla fede – e la istanza filosofica – dalla ragione – che si articola attorno alla sua duplice dimensione: quella storica e quella antropologica (FR  14).

3.1  Proposta di senso teologica

Il senso teologico pieno di un’affermazione di fede concreta parte sempre da una prospettiva di fede, che, a sua volta, parte dalla comprensione teologica della rivelazione come «vera stella di orientamento per l’uomo» (FR 15). L’auditus fidei sarà il momento fondante teologico-dogmatico della credibilità.

3.2  Proposta di senso storica

Il senso storico delle affermazioni di fede affonda le sue radici nella storia. Così, si deve tener presente che la storia include una triplice forma: quella originaria dei fatti, la forma riflessiva – o narrazione – e la forma filosofica.

3.3  Proposta di senso antropologica

Il senso antropologico di un’affermazione di fede è in diretto riferimento alla persona umana concreta. È l’apporto più decisivo del rinnovamento della teologia fondamentale contemporanea: la persona umana come essere storico radicato nell’immanenza della sua storicità; come essere indigente, bisognoso di senso definitivo; come essere alla ricerca del dono di una parola e di un senso ultimo.

4. Conclusione

La credibilità ha dunque il compito di mostrare la rivelazione come una “proposta sensata” nella sua triplice dimensione: teologica; filosofico-storica; e filosofico-antropologica. Sarà così che si potrà affermare che «sono degne di fede (credibilia) le tue testimonianze, Signore», giacché in verità «è credibile/affidabile il Dio che ci ha chiamato a vivere nella comunione con il suo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore» (1Cor 1,9).

 

HERNÁNDEZ, José Francisco. Elaborato sulla Tesi nº 4: L’atto di credere come “synthesis fidei” – Salvador Pié-Ninot. Pontificia Università Gregoriana Roma, 22 Maggio 2008.

 

Perigos e Efeitos Funestos do Desânimo

desanimoObra póstuma do Padre J. Michel, S.J.; “Tratado do Desânimo nas vias da Piedade”, Coleção Popular de Formação Espiritual, vol XXIX, Editora Vozes, Petrópolis RJ, 1952

CAPÍTULO I e II

            O desânimo é a tentação mais perigosa que o inimigo da salvação dos homens possa pôr por obra. Nas outras tentações, ele só ataca uma virtude em particular e mostra se a descoberto; no desânimo, ataca as todas, e esconde-se.

             Nas outras tentações, vê-se facilmente a cilada: na Religião, não raro na própria razão, e numa educação cristã, achamos sentimentos que as condenam: a vista do mal que não podemos disfarçar, a consciência, os princípios de Religião que despertam, servem de apoio para nos sustentarmos. No desânimo não achamos socorro algum; sentimos que a razão não basta para praticar todo o bem que Deus pede; por outro lado, não esperamos achar junto a Deus a proteção de que havemos mister para resistirmos às paixões. Achamo nos, pois, sem coragem, prontos a tudo abandonar; e é até aí que o demônio quer conduzir a alma desanimada.

            Nas outras tentações, vemos claramente que seria mal aderirmos a elas por um sentimento refletido: no desânimo, disfarçado sob mil formas, acreditamos ter razões as mais sólidas para nos deixarmos guiar por esse sentimento, que não consideramos como uma tentação. Entretanto, esse sentimento faz considerar como impossível a prática constante das virtudes, e expõe a alma a se deixar vencer por todas as paixões. É, pois, importante evitar essa cilada.

            O efeito mais funesto do desânimo é que a alma que nele cai não o considera uma tentação. A esperança e a confiança em Deus é tão mandada quanto a Fé e as outras virtudes

            O que faz o grande mal de uma alma desanimada é que, iludida por um temor excessivo que lhe disfarça os verdadeiros princípios, abatida pela vista das dificuldades contra as quais não acha em si mesma recurso algum, ela não considera esse estado como uma tentação. Se o encarasse sob este ponto de vista, desconfiaria das razões que o alimentam: e, assim, sairia dele bem mais cedo e mais facilmente.

            Bem certo é, entretanto, que se trata de uma tentação bem definida; porquanto todo sentimento que é oposto à lei de Deus, ou em si mesmo ou pelas conseqüências que pode ter, evidentemente é uma tentação. É assim que julgamos de todas as que podemos experimentar. Se nos vem um pensamento contra a Fé, um sentimento contra a Caridade, ou contra alguma outra virtude, consideramo lo como uma tentação, desviamo nos dele, e aplicamo-nos a produzir atos opostos a esse pensamento, a esse sentimento, que nos põe em perigo de ofender a Deus.

            Ora, a Esperança e a confiança em Deus é tão mandada quanto a Fé e as outras virtudes. O sentimento que vai contra a Esperança é, pois, tão proibido quanto o que vai contra a Fé, e contra qualquer outra virtude: é, pois, uma tentação bem caracterizada. A lei prescreve nos fazer amiúdes Atos de Fé, de Esperança e de Caridade: proíbe-nos, por isso mesmo, todo ato, todo sentimento refletido contrário a essas virtudes tão preciosas e tão salutares. Deve-se, pois, considerar o desânimo como uma tentação, e mesmo como uma tentação das mais perigosas, visto que expõe a alma cristã a abandonar toda obra de piedade.

            Para tornardes sensível a vós mesmos esse perigo, examinai a conduta ordinária dos homens. A esperança de ser bem sucedido, de se proporcionar um bem, de evitar um mal, numa palavra, de satisfazer algum desejo ou alguma paixão, é que os faz agir, é que os sustenta nas penas que eles têm de suportar, é que os anima nos obstáculos que eles têm a vencer.

            Tirai lhes toda esperança, e logo eles cairão na inação. Só um homem no delírio pode dar se movimentos por um objeto que ele desespera de poder adquirir. O mesmo efeito o desânimo produz na prática das virtudes; funda se no mesmo princípio, a falta dos meios para chegar ao fim que nos propomos.

            A alma cristã que não espera vencer se na prática de alguma virtude, nada ou quase nada empreende para se fortificar. Os esforços insuficientes que ela faz aumentam lhe a fraqueza; e, mais do que meio vencida pelo seu desânimo, ela se deixa facilmente arrastar à paixão que a domina. A vista da sua fraqueza lança a primeiramente na irresolução, na perturbação. Neste estado, todo ocupada da dificuldade que sente em combater, ela já não vê os princípios que devem guiá la. O temor de não ser bem sucedida impede a de enxergar os meios que deve adotar para vencer, e que Deus lhe apresenta: ela se entrega, pois, ao inimigo sem defesa. É como uma criança a quem a vista de um gigante que avança contra ela faz tremer, e que não pensa em que uma pedra basta para derrubá lo, se ela se servir dessa pedra em nome do Senhor. Essa alma, assim, desanimada, tem um socorro poderoso na bondade do Pai mais terno; e que é só reclamar esse socorro, para sair vitoriosa do combate.

 

 

As cinco vias de São Tomás de Aquino

Gilberto de Oliveira, EP

tomas-aquinoPrimeira via: do motor imóvel

A primeira, e a mais clara, parte do movimento. Nossos sentidos atestam, com toda a certeza, que neste mundo algumas coisas se movem. Ora, tudo o que se move é movido por outro. Nada se move que não esteja em potência em relação ao termo de seu movimento; ao contrário, o que move o faz enquanto se encontra em ato. Mover nada mais é, portanto, levar algo da potência ao ato, e nada pode ser levado ao ato senão por um ente em ato. Como algo quente em ato, por exemplo o fogo, torna a madeira que está em potência para o calor, quente em ato, e assim o move e altera. Ora, não é possível que a mesma coisa, considerada sob o mesmo aspecto, esteja simultaneamente em ato e em potência; a não ser sob aspectos diversos: por exemplo, o que está quente em ato não pode estar simultaneamente quente em potência, mas está frio em potência. É impossível que sob o mesmo aspecto e do mesmo modo algo seja motor e movido, ou que mova a si próprio. É preciso que tudo o que se mova seja movido por outro. Assim, se o que move é também movido, o é necessariamente por outro, e este por outro ainda. Ora, não se pode continuar até o infinito, pois neste caso não haveria um primeiro motor, por conseguinte, tampouco outros motores, pois os motores segundos só se movem pela moção do primeiro motor, como o bastão, que só se move movido pela mão. É então necessário chegar a um primeiro motor, não movido por nenhum outro, e este, todos entendem: é Deus.

Segunda via: Da causa eficiente

A segunda via parte da razão de causa eficiente. Encontramos nas realidades sensíveis a existência de uma ordem entre as causas eficientes; mas não se encontra, nem é possível, algo que seja causa eficiente de si próprio, porque desse modo seria anterior a si próprio: o que é impossível. Ora, tampouco é possível, entre as causas eficientes, continuar até o infinito, porque entre todas as causas eficientes ordenadas, a primeira é a causa das intermediárias e as intermediárias são a causa da última, sejam elas numerosas ou apenas uma. Por outro lado, supressa a causa, suprime-se também o efeito. Portanto, se não existisse a primeira entre as causas eficientes, não haveria a última nem a intermediária. Mas se tivéssemos de continuar até o infinito na série das causas eficientes, não haveria causa primeira; assim sendo não haveria efeito último, nem causa eficiente intermediária, o que evidentemente é falso. Logo é necessário afirmar uma causa eficiente primeira, a que todos chamam Deus.

Terceira via: Do contingente e necessário

A terceira via é tomada do possível e do necessário. Ei-la. Encontramos, entre as coisas, as que podem ser e não ser, uma vez que algumas se encontram que nascem e perecem. Conseqüentemente, podem ser e não ser. Mas é impossível ser para sempre o que é de tal natureza, pois o que pode não ser não é em algum momento. Se tudo pode não ser, houve um momento em que nada havia. Ora, se isso é verdadeiro, ainda agora nada existiria; pois o que não é só passa a ser por intermédio de algo que já é. Por conseguinte, se não houve ente algum, foi impossível que algo começasse a ser; logo, hoje, nada existiria: o que é falso. Assim, nem todos os entes são possíveis, mas é preciso que algo seja necessário entre as coisas. Ora, tudo o que é necessário tem, ou não, a causa de sua necessidade em um outro. Aqui também não é possível continuar até o infinito na série das coisas necessárias que tem uma causa da própria necessidade, assim como as causas eficientes, como se provou. Portanto, é necessário afirmar a existência de algo necessário por si mesmo, que não encontra alhures a causa de sua necessidade, mas que é a causa da necessidade para os outros: o que todos chamam Deus.

Quarta via: Dos graus de perfeição

A quarta via se toma dos graus que se encontram nas coisas. Encontra-se nas coisas algo mais ou menos bom, mais ou menos verdadeiro, mais ou menos nobre etc. Ora, mais ou menos se dizem de coisas diversas conforme elas se aproximam diferentemente daquilo que é em si o máximo. Assim, mais quente é o que mais se aproxima do que é sumamente quente. Existe em grau supremo algo verdadeiro, bom, nobre e, conseqüentemente o ente em grau supremo, pois, como se mostra no livro II da Metafísica, o que é em sumo grau verdadeiro, é ente em sumo grau. Por outro lado, o que se encontra no mais alto grau em determinado gênero é causa de tudo que é desse gênero: assim, o fogo que é quente, no mais alto grau, é causa do calor de todo e qualquer corpo aquecido, como é explicado no mesmo livro. Existe então algo que é, para todos os outros entes, causa de ser, de bondade e de toda a perfeição: nós o chamamos Deus.

Quinta via: Do governo das coisas

A quinta via é tomada do governo das coisas. Com efeito, vemos que alguns seres que carecem de conhecimento, como os corpos físicos, agem em vista de um fim, o que se manifesta pelo fato de que, sempre ou a maioria das vezes, agem da mesma maneira, a fim de alcançarem o que é ótimo. Fica claro que não é por acaso, mas em virtude de uma intenção, que alcançam o fim. Ora, aquilo que não tem conhecimento não tende a um fim, a não ser dirigido por algo que conhece e que é inteligente, como a flecha do arqueiro. Logo, existe algo inteligente pelo qual todas as coisas naturais são ordenadas ao fim, e a isso nós chamamos Deus. ([1])

 

Resumido e adaptado das Edições Loyola por:
OLIVEIRA, Gilberto. As 5 vias de S. Tomás e a Ordem do Universo. Curso de Pós-Graduação em Teologia Tomista: Centro Universitário Ítalo Barsileiro. São Paulo, 2007. p. 16-18.
 

[1]     Cf. TOMÁS DE AQUINO (São). Suma Teológica. VOL.I.São Paulo: Loyola, 2001 pp. 166/167/168

Ver também versão mais completa em: http://presbiteros.arautos.org/2010/06/07/as-cinco-provas-ou-vias-da-existencia-de-deus/


Desafios da Igreja no terceiro milênio da Era Cristã

bentoMons. João Clá Dias, EP

Um dos grandes desafios da Igreja no início deste terceiro milênio da Era Cristã é a recondução daqueles de seus filhos que deixaram de praticar os deveres religiosos e se desligaram da plena comunhão eclesial. É o que em linguagem corrente se denomina de “católicos à sua maneira”. No entanto, convém ressaltar que para atrair esse tipo de católicos seria mais eficaz apresentar a religião sob uma perspectiva inovadora, uma vez que os métodos e práticas convencionais, para eles, de certa forma se desgastaram, deixando de ter significado. O Pontifício Conselho para a Cultura, no já mencionado Documento Final (2006), oferece uma proposta para atrair os descrentes e os indiferentes, que podemos também aplicar frutuosamente aos católicos não praticantes: 

Devant les défis historiques, sociaux, culturels et religieux relevés dans les deux précédentes Assemblées plénières, quels aspects de la pastorale l’Église est-elle appelée à privilégier dans son dialogue apostolique avec les hommes et les femmes de notre temps, notamment les non-croyants et les indifférents? (…)Dans cette perspective, la Via pulchritudinis se présente comme un itinéraire privilégié pour rejoindre beaucoup de celles et ceux qui éprouvent de grandes difficultés à recevoir l’enseignement, en particulier moral, de l’Église.

Essa impostação de alma — de amor aos aspectos mais sublimes da ordem do Universo —, não se trata tão só de uma operação da razão natural, pela qual se busca entender o simbolismo das criaturas e discernir nelas um espelho das qualidades de Deus.

Com efeito, para adquirir uma penetrante e vasta visão da beleza do criado e sua relação com o Criador, não se pode deixar de considerar a ação do Espírito Santo nas almas, conduzindo-as pelas mais diversas vias. O exemplo da conversão do conhecido escritor francês Paul Claudel (1878-1955) ilustra bem o que se pretende afirmar. Foi durante o canto do Magnificat, na celebração de Vésperas na Catedral de Notre-Dame de Paris, que ele se converteu, deslumbrado com o esplendor e a beleza da liturgia.

A descrição desse momento, por suas próprias palavras, é mais eloqüente que qualquer explicação teórica:

C’est alors que se produisit l’événement qui domine toute ma vie. En un instant, mon cœur fut touché et je crus. Je crus, d’une telle force d’adhésion, d’un tel soulèvement de tout mon être, d’une conviction si puissante, d’une telle certitude ne laissant place à aucune espèce de doute que, depuis, tous les livres, tous les raisonnements, tous les hasards d’une vie agitée, n’ont pu ébranler ma foi, ni, à vrai dire, la toucher.[1]

Essa iluminação súbita do entendimento e afervoramento do coração, tal como se um “flash” se acendesse na alma, é uma das formas características de atuação do Espírito Santo. Trata-se de uma experiência de Deus, sem que Ele se faça perceptível aos sentidos externos, como explica Tanquerey, “S. Bernard l’appelle la connaissance savoureuse des choses divines[2]

DIAS, João Scognamiglio Clá. Considerações sobre a gênese e o desenvolvimento do movimento dos Arautos do Evangelho e seu enquadramento jurídico, 2008. Tese de Mestrado em Direito Canônico — Pontifício Instituto de Direito Canônico do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, 2008. p. 93-94.


[1][1] Cf. P. Claudel, Ma conversion, dans Contacts et circonstances, Gallimard, 1940, p. 11 sq ; repris dans Ecclesia, Lectures chrétiennes, Paris, No 1, avril 1949, p. 98-100.

[2][2] Cfr. TANQUEREY, A. Précis de Théologie Ascétique et Mystique, n.1348.

Simbolismo da linguagem

Ir. Angela Maria Tomé, EPconv-jesus-nicodemos

Nada mais carregado de símbolos do que a linguagem humana. Já desde o início da criação, convencionaram-se sons que traduziam conceitos.

São Tomás de Aquino diz: “As palavras são sinais dos conceitos e os conceitos são semelhanças das coisas” (Suma Teológica, I, q. 13, 1). Portanto, metáforas.

Ensina, de maneira muito poética, o Doutor Angélico (Suma Teológica, I, q. 94, 3) que, no início da criação, todas as tardes Deus descia ao Paraíso para conversar com Adão. Nessas ocasiões, fazia desfilarem diante dele todos os animais criados, e juntos os nomeavam, de acordo com sua essência. Ora, essa linguagem inicial ensinada pelo próprio Criador, aos poucos desapareceu, assim como Adão perdeu, pelo pecado, o dom da ciência infusa que tinha recebido ao sair das mãos Divinas.

Afirma o Pe. Victorino Rodríguez, OP (1991, p. 104) em sua obra Estudios de Antropología Teológica:

“A analogia das palavras (nominum analogia) e da linguagem (locutio analogica) é um tema de reflexão filosófica muito antes que surgisse a “filosofia analítica” ou a “análise da linguagem” em meados do nosso século. E antes que aparecessem os estudos sobre a analogia das palavras e das proposições (em Aristóteles e São Tomás, por exemplo), esteve em uso a linguagem analógica, como a das proporções matemáticas e aritméticas, as correlações psicológicas, morais e metafísicas, e, superabundantemente, as analogias metafóricas na literatura desde Homero até nossos dias.

Efetivamente a coisa conhecida impressiona parcialmente a inteligência por sensações que não a revelam em toda sua inteligibilidade, e o conceito produzido também não é plasmado adequadamente na palavra ou na escrita correspondente, além de que pode plasmar-se em outros símbolos não-sonoros ou não-articulados. Esta é a gênese da linguagem, tal como a expuseram Aristóteles e São Tomás (RODRÍGUEZ, 1991, p. 104, tradução nossa).

 

Há dois níveis de símbolos: os não linguísticos, em que o próprio objeto representa algo diferente dele, como é o caso das bandeiras, dos emblemas, dos sinais de trânsito; e os linguísticos, isto é, a própria linguagem, quer falada, quer escrita. É o que Othon M. Garcia denomina de signos-símbolos.

Continua o Pe. Victorino Rodríguez:

A inadequação da palavra original para expressar o conteúdo múltiple do conceito é a razão da enorme amplificação analógica da palavra. Sem que ela mude em si (nomem comune), se abre a um leque de significações conexas ou relacionadas em parcial semelhança (ratio partim eadem, partin diversa) (RODRIGUEZ, 1991, p. 104).

 

TOME, Angela. O conhecimento simbólico na transmissão da verdade. in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho. n. 7, abr-jun 2009. p. 112-113.

Haverá esperança para uma cultura centrada na mera ciência?

Pe. François Bandet, EPtibidabo

A fim de melhorar o entendimento da ciência quotidiana, é necessário tomar em conta duas características da ciência que influenciam tremendamente: a sua refletividade e a sua tecnicalidade.

Por refletividade, entendemos o meio de integração da dimensão da consciência no campo da ciência e, a partir daí, atingindo uma dimensão filosófica.

Pela sua tecnicalidade, a ciência distancia-se de toda a teoria e torna-se exclusivamente a técnica. Os dados tornam-se o mais importante e no seu caminho tentam “possuir” as leis da natureza.

Como a ciência sempre desejou “transformar” o mundo, está ligada à humanidade no seu ato de ser, no seu corpo e no seu espírito, tocando atualmente em problemas políticos, éticos e colocando em questão a própria humanidade.

Surge então um dilema para a humanidade: seguir a mentalidade lógica e técnica da ciência, olhando por cima de todas as considerações éticas, criando tensões e conflitos e concentrando-se na expansão e no desenvolvimento da “transformação” do mundo; ou encontrar (ou inventar) uma nova moralidade ética para justificar as novas conquistas.

Através da sua capacidade de transformar o mundo, a ciência criou novos problemas para a humanidade. Considerada, formalmente, um elemento de unificação, tornou-se hoje muito controversa devido aos excessos que produziu. Pense-se, por exemplo, nos atuais problemas e desastres ecológicos.

O futuro do homem e a sua existência parecem encontrar-se totalmente e irreparavelmente ligados à ciência e à tecnologia de amanhã. Por isso se deve desenvolver uma nova relação com a Fé, que deve ser respeitada e encorajada.

O conflito que surge pode ser encontrado ao nível do homem, da sua existência e da urgência de submeter a ciência aos valores morais humanos. Por outro lado, a Fé não deve mostrar um completo desinteresse em relação à ciência; poderá até tornar-se uma forte fonte de inspiração para ajudar a encontrar um senso de moralidade que irá fazer com que se produzam abundantes frutos de diálogo e unidade no mundo.

A ambiguidade da ciência moderna reside no fato de ter contribuído para o progresso da humanidade, mas que também está na origem de várias tensões, aberrações e desastres.

Cada vez se torna mais evidente que não é possível lidar com o problema do significado da vida, com questões éticas, e com um sistema de valores, no contexto de uma cultura centrada apenas na ciência.

BANDET. François. Estará a ciência oposta à Fé?  in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho. n. 6, jan-mar 2009. p. 78-79. Traduzido do original inglês pelo Editorial de Lumen Veritatis, com autorização e revisão do autor.

Devemos aproveitar bem o tempo – Santo Afonso Maria de Ligório

sto-afonso-maria-ligorioFonte: Pe. Thiago Maria Cristini, Meditações para todos os dias do ano tiradas das obras de Santo Afonso Maria de Ligório, Bispo e Doutor da Igreja, Herder e Cia., tomo I, págs.101-104, Friburgo em Brisgau, Alemanha, 1921.

 

Sumário. Com razão o Espírito Santo nos exorta a que conservemos o tempo, porquanto o tempo é não somente precioso, mas ainda de mui curta duração. Lembra‑te de como se passaram depressa os doze meses desse ano que hoje termina. Dize‑me, irmão meu, como é que até hoje tens empregado o tempo? Esforças‑te, ao menos, em resgatar o tempo perdido, empregando‑o melhor para o futuro? Quem sabe? Talvez o ano que finda, seja o último da tua vida!

 

I. O tempo, sobre ser a coisa mais preciosa, porque é um tesouro que só neste mundo se acha, é ainda de mui curta duração. Ecce breves anni transeunt. Lembra‑te de como se passaram depressa os doze meses do ano que hoje finda! É, portanto, com razão que o Espírito Santo nos exorta a conservarmos o tempo, e não deixarmos perder‑se um só momento sem o aproveitarmos bem. Mas, ai de nós! Quão diversamente vão as coisas! Ó tempo desprezado, tu serás a coisa que os mundanos mais desejarão na hora da morte, quando ouvirem dizer que para eles não haverá mais tempo: Tempus non erit amplius.

E tu, irmão meu, em que empregas o teu tempo? Deus te concedeu a graça de teres chegado até ao dia de hoje, com preferência a tantos milhares e milhões de pessoas, talvez da tua idade, ou mesmo mais novas, talvez fortes como tu ou ainda mais robustos, com a mesma compleição que tu, ou talvez mais sadia. Elas morreram e tu estás vivo! Elas estão reduzidas à podridão e cinzas no túmulo e tu estás aqui meditando! Elas na eternidade – e muitas infelizmente no inferno – e tu ainda no tempo! Mas como é que passas o tempo? Em que coisas o empregaste até hoje?

Faze aqui, aos pés de Jesus Cristo, um exame geral da tua vida. Pondera, por um lado, as inúmeras graças com que Deus te tem cumulado especialmente no correr deste ano; por outro, recorda as faltas, as imperfeições, quiçá os pecados, com que continuamente, desde o primeiro dia do ano até este último, tens ofendido o Senhor, retribuindo‑lhe a Sua liberalidade infinita com ingratidão.  Ah! Se não resgatares desde já o tempo inutilmente perdido, ou quiçá mal empregado, ele te causará remorsos amargosos, quando, no leito da morte, te achares próximo àquele grande momento do qual depende a eternidade!

 

II. Meu irmão, se, por desgraça, tiveres de reconhecer que passaste na tibieza o tempo do ano que terminou, procura passar no fervor ao menos este último dia. Agradece muitas vezes a Deus o ter‑te conservado em vida até ao dia de hoje e pede‑Lhe perdão das negligências passadas no Seu serviço. Visto que não sabes se viverás até ao dia de amanhã e se entrarás ainda no ano novo, põe hoje mesmo em ordem as coisas de tua consciência e purifica a tua alma por meio de uma confissão anual. Afinal, faze um propósito firme e eficaz de servires a Deus para o futuro com mais zelo, e de empregares melhor o ano vindouro. É assim que, no dizer do Apóstolo, andarás no caminho da Salvação com circunspeção, e recobrarás o tempo: Videte quomodo caute ambuletis… redimentes tempus[1]: AVede como andais prudentemente… remindo o tempo.

Ó Senhor, cuja misericórdia não tem limites, cuja bondade é um tesouro inesgotável, dou graças à Vossa Majestade piedosíssima por todos os benefícios que me tendes feito, e em particular, pelo tempo que me concedeis para chorar as minhas culpas, e reparar as minhas desordens. Quem sabe se o ano que hoje finda, não será talvez o último inteiro da minha vida? Não, não quero mais resistir aos vossos convites tão amorosos. Pesa‑me, ó meu Bem supremo, de Vos ter ofendido e proponho fazer de hoje em diante contínuos atos de amor, a fim de compensar o tempo perdido.

Como, porém, as ocupações da vida não me permitem dirigir os meus pensamentos sem interrupção para Vós, faço hoje o seguinte ajuste, que será válido durante todo o ano vindouro e todo o tempo da minha vida. Cada vez que levantar os olhos para contemplar o céu, tenho intenção de glorificar as vossas perfeições infinitas. Quantas vezes respirar, quero oferecer‑Vos a Paixão e o Sangue de meu divino Redentor, bem como os merecimentos de todos os Santos, para a Salvação do mundo inteiro e em satisfação dos pecados que se cometerem. Toda a vez que bater no peito, quero amaldiçoar e detestar cada um dos pecados cometidos desde o princípio do mundo, e quisera poder repará-los com o meu sangue. Finalmente, a cada movimento das mãos, ou dos pés, ou de qualquer outra parte do corpo, tenciono submeter‑me à vossa santíssima vontade, desejando que de conformidade com esta, se façam todas as coisas. Para que este meu ajuste nunca mais seja violado, confirmo-o e selo-o com as cinco Chagas de Jesus Cristo, e deposito-o em Vossas mãos, ó Mãe da perseverança, Maria[2].

 


[1] Efésios, 5, 15.

[2] Esta fórmula de reta intenção foi composta por São Clemente Maria Hoffbauer, C.SS.R. Para os que seguem a devoção ensinada por São Luís Maria G.de Montfort, poderá ser toda  feita como escravo de Maria, oferecendo tudo em união com Ela e pelas mãos d=Ela.

 

Bento XVI decreta enriquecedoras precisões ao Direito Canônico – II

Diác. Carlos Adriano, EP         

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Imagem de www.ecclesia.pt

           

     “Uma vez católico, sempre católico.” Este axioma, que se encontrava em vigor na legislação da Igreja no Código de 1917, volta a possuir sua força ao serem inseridas novas modificações à atual lei, decretadas por Bento XVI pelo Motu Proprio Omnium in Mentem, após consulta à Congregação para a Doutrina da Fé e ao Pontifício Conselho para os Textos Legislativos, e considerada a utilidade pastoral das leis eclesiásticas.

            Este documento retira o termo “abandono formal da religião” dos cânones que tratam sobre o matrimônio, para efeitos de sua validade. A partir desta mudança, todos os batizados na Igreja, ou nela recebidos, devem se submeter à forma canônica para que o casamento seja considerado válido, ainda que tenham abandonado formalmente a religião.

            O cânon 11 do Código de Direito Canônico de 1983 prescreve que os batizados da Igreja Católica, ou nela recebidos, estão obrigados às leis eclesiásticas, a não ser que o direito disponha de forma diferente.

            A forma sacramental para a validade do matrimônio é uma lei eclesiástica, portanto, todos os batizados necessitariam dela para a celebração válida de seus casamentos.

            Ademais, existe um princípio na legislação canônica que diz o seguinte: semel catholicus, semper catholicus.

            Ocorre, entretanto, que o Código instituíra algumas exceções à norma do cânon 11 e a este princípio, determinando que os fiéis que se separassem da Igreja por um ato formal, não estariam vinculados às leis eclesiásticas relativas à forma canônica do matrimônio (cf. can.. 1117). Estes não precisariam da dispensa do impedimento de disparidade de culto (cf. can. 1086), nem mesmo da licença requerida para os matrimônios mistos (cf. can. 1124). Segundo o Motu Proprio, “a razão e o propósito desta exceção à norma geral do can. 11, tinha por escopo evitar que os matrimônios contraídos por aqueles fiéis fossem nulos por defeito de forma, ou por impedimento de disparidade de culto.”

            Isto significa que, de acordo com o Código de 1983, aquele que abandonava formalmente a fé católica, poderia se casar validamente mesmo sem a forma canônica, e não precisava da dispensa da mesma ou de licença para contrair matrimônio com pessoas de outra religião. A aplicação desta norma, contudo, vinha gerando muitos problemas pastorais: “Primeiramente, pareceu difícil a determinação e a configuração prática, nos casos individuais, deste ato formal da separação da Igreja, seja quanto à sua substância teológica, como ao próprio aspecto canônico.” O Pontifício Conselho para os textos legislativos chegou a publicar um comunicado para esclarecer o mencionado abandono formal.  “Ademais, surgiram muitas dificuldades tanto na ação pastoral quanto na praxe dos tribunais. De fato, se observava que da nova lei parecia nascer, ao menos indiretamente, uma certa facilidade, ou, por assim dizer, um incentivo à apostasia naqueles lugares onde os católicos são escassos em número, ou onde vigoram leis matrimoniais injustas, que estabelecem discriminação entre os cidadãos por motivos religiosos; além disso, ela tornava difícil o regresso daqueles batizados que desejavam firmemente contrair um novo matrimônio canônico, após o fracasso do anterior; enfim, omitindo outros, muitíssimos desses matrimônios tornavam-se, de fato, para a Igreja, matrimônios considerados ilegais.”

            Por isso, o Motu Proprio veio modificar esta situação, abolindo a regra introduzida no corpo da lei canônica atualmente em vigor. Decretou-se que fica eliminada do Código esta expressão: “e não separada dela por um ato formal” do can. 1117 , “e não separada dela por um ato formal” do can. 1086 § 1 º, bem como “e não separado dela mesma por um ato formal” do can. 1124.

            Seguem os trechos do documento que estabelecem as modificações:

            Art. 3. O texto do can. 1086 § 1 do Código de Direito Canônico seja assim modificado:

“É inválido o casamento entre duas pessoas, das quais uma é batizada na Igreja Católica ou nela recebida, e a outra não batizada”.

            Art. 4. O texto do can. 1117 do Código de Direito Canônico seja modificado como segue:

“A forma supra estabelecida deve ser observada se ao menos uma das partes contraentes do matrimônio for batizada na Igreja Católica ou nela recebida, salvo a disposição do can. 1127 § 2”.

            Art. 5. O texto do can. 1124 do Código de Direito Canônico seja assim modificado:

“O matrimônio entre duas pessoas batizadas, das quais uma seja batizada na Igreja Católica ou nela admitida depois do batismo, enquanto o outro, pelo contrário, seja pertencente a uma Igreja ou comunidade eclesial que não esteja em plena comunhão com a Igreja Católica, não pode ser celebrado sem expressa licença da autoridade competente”.

            Com isso, torna-se mais fácil o retorno à Igreja daqueles batizados, que, estando fora dela contraíram um matrimônio que depois “não deu certo”. Os batizados na Igreja Católica ou nela recebidos após batismo válido em outra Igreja ou Comunidade eclesial, mesmo que tenham deixado a Igreja Católica, se não se casam conforme a forma canônica (“na Igreja”), não tem mais o seu casamento considerado válido. Para validade canônica de tal matrimônio seria necessária a prévia dispensa da forma canônica ou do impedimento, a ser dada pelo Bispo diocesano.

 

Ver mais sobre este artigo: http://presbiteros.blog.arautos.org/2009/12/29/bento-xvi-decreta-enriquecedoras-precisoes-ao-direito-canonico/

Bento XVI decreta enriquecedoras precisões ao Direito Canônico

Diác. Carlos Adriano, EP

ord-diaconalNaqueles dias, como crescesse o número dos discípulos, houve queixas dos gregos contra os hebreus, porque as suas viúvas teriam sido negligenciadas na distribuição diária. Por isso, os Doze convocaram uma reunião dos discípulos e disseram: Não é razoável que abandonemos a palavra de Deus, para administrar. Portanto, irmãos, escolhei dentre vós sete homens de boa reputação, cheios do Espírito Santo e de sabedoria, aos quais encarregaremos este ofício. Nós atenderemos sem cessar à oração e ao ministério da palavra. Este parecer agradou a toda a reunião. Escolheram Estêvão, homem cheio de fé e do Espírito Santo; Filipe, Prócoro, Nicanor, Timão, Pármenas e Nicolau, prosélito de Antioquia. Apresentaram-nos aos apóstolos, e estes, orando, impuseram-lhes as mãos. (At. 6, 1-6).

        

            Por muitos anos, a tradição teológica fundamentou a origem do ministério diaconal neste trecho da Sagrada Escritura. Os próprios textos do Concílio Vaticano II – por exemplo, Lumen Gentium, n. 20 – se utilizam desta passagem para afirmar que os apóstolos tiveram distintos colaboradores no seu ministério (Cf. ARNAU-GARIA, 1995).

            Objetivando facilitar os estudos a respeito das novas mudanças no atual Código de Direito Canônico, decretadas pelo Motu Proprio Omnium in Mentem, procuraremos sintetizar e esclarecer, por meio deste artigo, as modificações mais diretamente relacionadas com este membro da Igreja – o diácono. O Papa Bento XVI decidiu fazer alterações, que descreveremos em seguida, a fim de haver mais unidade entre a doutrina teológica e a legislação canônica, conforme elucida o próprio documento mencionado.

             A doutrina da Igreja definiu que os diáconos recebem o sacramento da ordem “não para o sacerdócio, mas para o serviço” (LG29). Por isso, enquanto o bispo e o presbítero agem “in persona Christi Capitis” (na pessoa de Cristo Cabeça) (LG10), o diácono é configurado com Cristo servo dos servos de todos e age, portanto, in persona Christi Servitoris.

            A fim de que se aclarasse esta doutrina no Catecismo da Igreja Católica, o Papa João Paulo II, a conselho da Congregação para a Doutrina da Fé, adequou o ponto 1581 ao número 29 da Lumen Gentium. O Catecismo afirmava o seguinte: “Pela ordenação, a pessoa se habilita a agir como representante de Cristo, Cabeça da Igreja, em sua tríplice função de sacerdote, profeta e rei.” Trata-se de uma imprecisão. O texto aponta que a ordenação habilita a pessoa a agir na pessoa de Cristo Cabeça. Ocorre, entretanto, que a ordenação não configura o diácono com Cristo Cabeça, mas com Cristo Servidor.

            A imprecisão se deu também no Código de Direito Canônico de 1983:

             Cân. 1008 Por divina instituição, graças ao sacramento da ordem, alguns entre os fiéis, pelo caráter indelével com que são assinalados, são constituídos ministros sagrados, isto é, são consagrados e delegados a fim de que, personificando a Cristo Cabeça, cada qual no seu respectivo grau, apascentem o povo de Deus, desempenhando o múnus de ensinar, santificar e governar.

            Escutando o parecer do Pontifício Conselho para os textos legislativos, o Papa Bento XVI estabeleceu  que as palavras deste cânon fossem modificadas, e que fosse acrescido um terceiro parágrafo no cânon 1009. Segue o trecho do Motu Proprio, que institui tal modificação:

            Por isso, tendo ouvido sobre o mérito a Congregação para a Doutrina da Fé e do Pontifício Conselho para os Textos Legislativos, e tendo igualmente solicitado o parecer de S. R. E. Nossos Veneráveis Irmãos Cardeais responsáveis pelos Dicastérios da Cúria Romana, decretamos o quanto segue:

Art. 1. O texto da can. 1008 do Código de Direito Canônico seja alterado de modo que doravante seja:

“Com o sacramento da ordem por instituição divina alguns dentre os fiéis, mediante o caráter indelével com o qual são marcados, são constituídos ministros sagrados; isto é, aqueles que são consagrados e destinados a servir, cada um no seu grau, com novo e peculiar título, o povo de Deus”.

Art. 2. O can. 1009 do Código de Direito Canônico doravante tenha três parágrafos, dos quais no primeiro e no segundo se manterá o texto do canônico vigente, enquanto o terceiro texto seja redigido de modo que o can. 1009 § 3 assim resulte:

Aqueles que são admitidos na ordem do episcopado ou do presbiterato recebem a missão e a faculdade de agir na pessoa de Cristo Cabeça, os diáconos, ao invés, estão habilitados a servir o povo de Deus na diaconia da liturgia, da palavra e da caridade”.

 

Ver mais sobre este documento em: http://presbiteros.blog.arautos.org/2009/12/30/bento-xvi-decreta-enriquecedoras-precisoes-ao-direito-canonico-ii/

 

Messaggio natalizio ai fedeli presenti in Piazza San Pietro – Benedetto XVI

arvoreAlcuni estratti del Messaggio:

 

  “La liturgia della Messa dell’Aurora ci ha ricordato che ormai la notte è passata, il giorno è avanzato; la luce che promana dalla grotta di Betlemme risplende su di noi”.

 

  “La luce del primo Natale fu come un fuoco acceso nella notte.

Tutt’intorno era buio, mentre nella grotta risplendeva la luce vera ‘che illumina ogni uomo'”.

 

  “Anche oggi, mediante coloro che vanno incontro al Bambino, Dio accende ancora fuochi nella notte del mondo per chiamare gli uomini a riconoscere in Gesù il ‘segno’ della sua presenza salvatrice e liberatrice e allargare il ‘noi’ dei credenti in Cristo all’intera umanità”.

 

  “Dovunque c’è un ‘noi’ che accoglie l’amore di Dio, là risplende la luce di Cristo, anche nelle situazioni più difficili. La Chiesa, come la Vergine Maria, offre al mondo Gesù, il Figlio, che Lei stessa ha ricevuto in dono, e che è venuto a liberare l’uomo dalla schiavitù del peccato”.

 

  “Anche oggi, per la famiglia umana profondamente segnata da una grave crisi economica, ma prima ancora morale, e dalle dolorose ferite di guerre e conflitti, con lo stile della condivisione e della fedeltà all’uomo, la Chiesa ripete con i pastori: ‘Andiamo fino a Betlemme’ (Lc 2,15), lì troveremo la nostra speranza”.

 

  “Il ‘noi’ della Chiesa vive là dove Gesù è nato, in Terra Santa, per invitare i suoi abitanti ad abbandonare ogni logica di violenza e di vendetta e ad impegnarsi con rinnovato vigore e generosità nel cammino verso una convivenza pacifica. Il ‘noi’ della Chiesa è presente negli altri Paesi del Medio Oriente. Come non pensare alla tribolata situazione in Iraq e a quel piccolo gregge di cristiani che vive nella Regione? Esso talvolta soffre violenze e ingiustizie ma è sempre proteso a dare il proprio contributo all’edificazione della convivenza civile contraria alla logica dello scontro e del rifiuto del vicino”.

 

  “Il ‘noi’ della Chiesa opera in Sri Lanka, nella Penisola coreana e nelle Filippine, come pure in altre terre asiatiche, quale lievito di riconciliazione e di pace”.

 

  “Nel Continente africano non cessa di alzare la voce verso Dio per implorare la fine di ogni sopruso nella Repubblica Democratica del Congo; invita i cittadini della Guinea e del Niger al rispetto dei diritti di ogni persona ed al dialogo; a quelli del Madagascar chiede di superare le divisioni interne e di accogliersi reciprocamente; a tutti ricorda che sono chiamati alla speranza, nonostante i drammi, le prove e le difficoltà che continuano ad affliggerli”.

 

  “In Europa e in America settentrionale, il ‘noi’ della Chiesa sprona a superare la mentalità egoista e tecnicista, a promuovere il bene comune ed a rispettare le persone più deboli, a cominciare da quelle non ancora nate. In Honduras aiuta a riprendere il cammino istituzionale; in tutta l’America Latina il ‘noi’ della Chiesa è fattore identitario, pienezza di verità e di carità che nessuna ideologia può sostituire, appello al rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona ed al suo sviluppo integrale, annuncio di giustizia e di fraternità, fonte di unità”.

 

  “Fedele al mandato del suo Fondatore, la Chiesa è solidale con coloro che sono colpiti dalle calamità naturali e dalla povertà, anche nelle società opulente. Davanti all’esodo di quanti migrano dalla loro terra e sono spinti lontano dalla fame, dall’intolleranza o dal degrado ambientale, la Chiesa è una presenza che chiama all’accoglienza. In una parola, la Chiesa annuncia ovunque il Vangelo di Cristo nonostante le persecuzioni, le discriminazioni, gli attacchi e l’indifferenza, talvolta ostile, che – anzi – le consentono di condividere la sorte del suo Maestro e Signore”.

 

VATICAN INFORMATION SERVICE, ANNO XIX – N° 226. ITALIANO, LUNEDÌ, 28 DICEMBRE 2009.