Messa con i Membri della Commissione Teologica Internazionale – Benedetto XVI

SANTA MESSA CON I MEMBRI DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE , 01.12.2009

santo-padre           

            Cari fratelli e sorelle,

             […]

            I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.

            Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia “non scientifica”, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!

            Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo? Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una “specie” di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa “il teologo”, perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce “ignorante” in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.

            Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo. Qui sofia e sínesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.

            E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.

            In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza. Amen.

 

in: http://212.77.1.245/news_services/bulletin/news/24750.php?index=24750&po_date=01.12.2009&lang=po

BOLLETTINO: Sala Stampa della Santa Sede

CARTA AOS PRESBÍTEROS EM DEZEMBRO 2009 – D. Cláudio Hummes

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CARTA AOS PRESBÍTEROS EM DEZEMBRO 2009.

 

Caros Presbíteros,

            Na vida do Presbítero, a oração ocupa necessariamente um lugar central. Não é difícil de entender, porque a oração cultiva a intimidade do discípulo com seu Mestre, Jesus Cristo. Todos sabemos que, ao esvaecer-se a oração, debilita-se a fé e o ministério perde conteúdo e sentido. A consequência existencial para o Presbítero exprime-se em menor alegria e felicidade no ministério quotidiano. É como se o Presbítero, ao seguir os passos de Jesus, lado a lado com tantos outros, perdesse o passo no caminho, ficando sempre mais para trás e mais distante do Mestre, até perdê-Lo de vista no horizonte. A partir de então, caminha sem rumo e vacilante.

            São João Crisóstomo, numa homilia, ao comentar a Primeira Carta de Paulo a Timóteo, adverte sabiamente: “O diabo joga-se contra o pastor […]. Com efeito, se matar as ovelhas o rebanho diminui; ao invés, eliminando o pastor, destruirá o rebanho inteiro”. O comentário faz pensar em muitas situações hodiernas. Crisóstomo admoesta que a diminuição dos pastores faz e fará diminuir sempre mais o número dos fiéis e das comunidades. Sem pastores, nossas comunidades serão destruídas!

            Aqui, porém, desejo, antes de tudo, falar da necessária oração para que, como diria Crisóstomo, os pastores vençam o diabo e não pereçam. Em verdade, sem o alimento essencial da oração, o Presbítero adoece, o discípulo não encontra forças para seguir o Mestre, e assim morre por inanição. Em consequência, seu rebanho se dispersa e morre.

            Realmente, cada Presbítero é, por definição, portador de uma referência essencial à comunidade eclesial. Ele é um discípulo muito especial de Jesus, que o chamou e, pelo sacramento da Ordem, o configurou a Si como Cabeça e Pastor da Igreja. Cristo é o único Pastor, mas quis fazer participar a  Seu ministério os Doze e seus Sucessores, mediante os quais também os Presbíteros, ainda que em grau inferior, são feitos participantes deste sacramento, de tal forma que também eles participem, a seu modo próprio, do ministério de Cristo, Cabeça e Pastor. Isso comporta um laço essencial do Presbítero com a comunidade eclesial. Ele não pode omitir-se no que diz respeito a essa responsabilidade, dado que a comunidade sem pastor se desfaz. A exemplo de Moisés, deve permanecer de braços erguidos ao céu, em oração, para que o povo não pereça.

            Por esta razão, para continuar fiel a Cristo e à comunidade, o Presbítero precisa ser  homem de oração,  homem que vive na intimidade do Senhor. Necessita, além disso, ser confortado pela oração da Igreja e de cada cristão. As ovelhas devem rezar por seu pastor! Mas, quando este se dá conta que sua própria vida de oração enfraquece, é hora de dirigir-se ao Espírito Santo e implorá-Lo com ânimo de pobre. O Espírito reacenderá o fogo em seu coração. Reacenderá a paixão e o encanto para com o Senhor. Este está sempre ali e deseja fazer a ceia com quem Lhe abre a porta.

            É Ano Sacerdotal e, por isso, queremos orar, com perseverança e grande amor, pelos Presbíteros e com os Presbíteros. A propósito, a Congregação para o Clero, cada primeira Quinta Feira do mês, durante o Ano Sacerdotal, às 16 horas, celebra uma Hora eucarístico-mariana, na Basílica de Santa Maria Maior, em Roma, para os Sacerdotes e com os Sacerdotes. Conosco vem rezar muita gente, com alegria.

            Caríssimos Presbíteros, aproxima-se o Natal de Jesus Cristo. Faço a todos vós os melhores e mais fraternos votos de Bom Natal e Feliz Ano de 2010. O Menino Deus, no presépio, convida-nos a renovar para com Ele aquela intimidade de amigos e discípulos, a fim de reenviar-nos como Seus anunciadores!

 

Cardeal Dom Cláudio Hummes

Arcebispo Emérito de São Paulo

Prefeito da Congregação para o Clero

 

in: www.clerus.org

 

 

Vida interior e vida ativa mutuamente se reclamam

Dom J. B. Chautard

A ALMA DE TODO

APOSTOLADO

Cap.IV 2ª parte

 

hermannComo o amor de Deus se revela pelos atos da vida interior, assim o amor do próximo se manifesta pelas operações da vida exterior. Portanto, não podendo o amor de Deus separar‑se do amor do próximo, resulta daí que essas duas formas de vida não podem também, de maneira alguma, subsistir uma sem a outra.[1] 20

De igual sorte, diz Suárez, não pode existir estado correta e normalmente ordenado para chegar à perfeição, sem que participe em certa medida da ação e da contemplação.[2]

O ilustre jesuíta limita‑se a comentar o ensinamento de São Tomás. Aqueles que são chamados às obras da vida ativa, diz o Doutor Angélico, erram se julgam que este dever os dispensa da vida contemplativa. Tal dever é um acréscimo desta vida e não lhe diminui a intensidade. Destarte, as duas vidas, longe de se excluir, reclamam‑se, supõem‑se, misturam‑se, completam‑se mutuamente; e, se de qualquer das duas se deve fazer um quinhão mais considerável, é por sem dúvida da vida contemplativa, a mais perfeita e a mais necessária.[3]

A ação, para ser fecunda, carece da contemplação; quando esta atinge certo grau de intensidade, difunde sobre a primeira algum tanto do seu excedente e, por meio dela, a alma vai haurir diretamente no coração de Deus as graças que a ação se encarrega de distribuir.

Por isso é que, fundindo‑se, na alma de um santo, a ação e a contemplação, em harmonia perfeita, ambas dão à vida dele unidade maravilhosa. Tal, por exemplo, São Bernardo, o homem mais contemplativo e ao mesmo tempo mais ativo do seu século, e de quem faz esta admirável pintura um dos seus contemporâneos: a contemplação e a ação harmonizavam‑se nele a ponto tal que este santo a um tempo parecia inteiramente dedicado às obras exteriores e inteiramente absorvido na presença e no amor do seu Deus.[4]

Comentando este texto da Sagrada Escritura: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum,[5] o Pe. Saint Jure descreve admiravelmente as mútuas relações entre as duas vidas. Vamos resumir as suas reflexões:

O coração significa a vida interior, contemplativa. O braço, a vida exterior, ativa.

O texto sagrado fala do coração e do braço para mostrar que as duas vidas se podem aliar e harmonizar perfeitamente na mesma.

O coração é indicado em primeiro lugar, porque é um órgão sobremaneira mais nobre e necessário que o braço. Da mesma forma, a contemplação é muito mais excelente e mais perfeita e merece muito mais estima que a ação.

Dia e noite, o coração palpita. Um só instante que este órgão essencial parasse, logo a morte sobreviria. O braço, parte apenas integrante do corpo humano, esse somente se move por intervalos. Do mesmo modo, devemos algumas vezes dar tréguas a nossos trabalhos exteriores; mas, ao invés, nunca devemos afrouxar na nossa aplicação às coisas espirituais.

O coração dá vida e força ao braço por meio do sangue que lhe envia e, sem este, o braço se dessecaria. Da mesma forma, a vida contemplativa, vida de união a Deus, graças às luzes e à perpétua assistência que a alma recebe desta intimidade, vivifica as ocupações exteriores; só ela é capaz de lhes comunicar simultaneamente o caráter sobrenatural e a real utilidade. Sem ela, tudo fica enlanguescido, estéril, cheio de imperfeições.

O homem, ai! amiúde separa o que Deus uniu; por isso é que tão rara é essa união perfeita. Demais, para ser realizada, exige ela um conjunto de precauções de freqüente negligenciadas. Nada empreender que exceda as próprias forças. Ver em tudo, habitual mas simplesmente, a vontade de Deus. Não nos metermos em obras senão quando Deus quer, e na medida exata em que lhe apraz ver‑nos consagrados a elas, e somente com o desejo de exercer a caridade. Logo no princípio, oferecer‑lhe nosso trabalho e, no decurso de nossos labores, reanimar amiúde, por meio de pensamentos santos, por meio de ardentes orações jaculatórias, nossa resolução de não trabalhar senão por Ele e para Ele. Em suma, seja qual for a atenção que devamos prestar a nossos trabalhos, conservar‑nos sempre em paz, perfeitamente senhores de nós mesmos. Quanto ao bom êxito, deixá‑lo unicamente nas mãos de Deus e aspirarmos a ver‑nos livres de todos os cuidados apenas para nos reencontrarmos a sós com Jesus Cristo. Tais são os sapientíssimos conselhos dos mestres da vida espiritual para chegarmos a essa união.

Por vezes, as ocupações hão de multiplicar‑se a ponto tal que exijam o dispêndio de todas as nossas energias, sem que, por outro lado, nos possamos desembaraçar do fardo, ou mesmo aligeirá‑lo. A conseqüência poderá ser a privação, por um tempo mais ou menos longo, do gozo da união a Deus, mas essa união somente sofrerá algum dano se nós assim o quisermos. Prolongando‑se este estado, é necessário por tal motivo gemer, sofrer e temer acima de tudo o habituarmo‑nos a ele.

O homem é fraco, inconstante. Se descuida a sua vida espiritual, depressa perde o gosto dela. Absorvido pelas ocupações materiais, acaba por comprazer‑se nelas. Pelo contrário, se o espírito interior manifesta a sua vitalidade latente por meio de suspiros e gemidos, esses lamentos contínuos, como provém de uma ferida que se não fecha mesmo no meio de uma atividade transbordante, constituem o mérito da contemplação sacrificada, ou melhor, a alma realiza essa admirável e fecunda união da vida interior e da vida ativa.

Oprimida por essa sede de vida interior que não logra apagar a seu bel‑prazer, a alma há de voltar com ardor, logo que possa, à vida de oração. Nosso Senhor sempre lhe há de reservar alguns instantes de entretenimento com Ele. Exige, porém, que a alma os não despreze e há de então compensar‑lhe com o fervor a brevidade desses felizes momentos.

Como as vias de Deus se assinalam pela sabedoria e pela bondade! Que maravilhosa direção não dá Ele às almas por meio da vida interior! Conservada no seio da ação e sem embargo generosamente oferecida, essa pena profunda de termos de consagrar tanto tempo às obras de Deus, e tão pouco ao Deus das obras, tem a sua compensação. Graças a ela, desvanecem‑se todos os perigos de dissipação, de amor próprio, de afeições naturais. Essa disposição da alma longe de prejudicar a liberdade do espírito e a atividade, dá‑lhes um caráter mais ponderado. É ela a forma prática do exercício da presença de Deus, porque a alma, na graça do momento presente encontra Jesus vivo, oferecendo‑se‑lhe oculto sob a obra a realizar. Jesus trabalha com ela e ampara‑a. Quantas pessoas, que desempenham cargos, hão de dever a essa pena salutar bem compreendida, a esse desejo sempre sacrificado e sempre vivo de ter mais momentos livres para estar junto do sacrário, e essas comunhões espirituais desde então quase incessantes, hão de dever, repetimos, a fecundidade de sua ação e ao mesmo tempo assim a salvaguarda da sua alma como seus progressos na virtude!

in: CHAUTARD, J. B. A ALMA DE TODO APOSTOLADO. São Paulo: Coleção, 1962.

[1] ) Sicut per contemplationem amandus est Deus, ita per actualem vitam diligendus est proximus, ac per hoc, sic non possumus sine utraque esse vita, sicut et sine utraque dilectione esse nequaquam possumus (S.Isid., Different., Lib. II, XXXIV, N. 135).

 

[2] ) Concedendum ergo est nullum esse posse vitae studium recte institutum ad perfectionem obtinendam, quod non aliquid de actione et de contemplatione participet (Suarez, I De Relig. Tract., 1, I, c. v, n. 5).

[3] ) Cum aliquis a contemplativa vita ad activam vocatur, non fit per modum substractionis, sed per modum additionis (D. Thom., 2, 2.ae, q. 182, a. 1).

[4] ) Interiori quadam, quam ubique ipse circumferebat solitudine fruebatur, totus quodammodo exterius laborabat, et totus interius Deo vacabat (God., Vita S. Bern. 1, I, c. v, et 1, III).

[5] ) Põe‑me como um selo sobre o teu coração, como um selo sobre o teu braço (Cant. 8, 6).


Ceux qui ne croient pas au miracle

cura-bartimeuC’est un fait prouvé par l’expérience de tous les jours et de tous les temps que les miracles les plus avérés, les plus authentiques, miracles qui produisent tout leur effet sur un certain nombre d’âmes, sont, pour d’autres, nuls et non avenus; bien plus se convertissent pour elles en prétextes d’incrédulité.

Ces deux phénomènes absolument contradictoires supposent-ils, dans les uns ou les autres, des états de conscience insolites, anormaux, quelque maladie mentale ou autre, l’absence de quelque faculté naturelle? Nullement: le chrétien qui croit, comme Bossuet, a toute sa raison; l’incrédule, qui nie, comme Voltaire, peut être doué des plus riches facultés : entre le croyant et l’incroyant on ne saurait saisir ni physiologiquement, ni intellectuellement, aucune différence de nature.

Si étrange qu’elle paraisse cette contradiction n’étonne aucun chrétien : car elle a été littéralement prévue, prédite et décrite dans l’Évangile. Le même Sauveur qui a dit : «Si je n’avais pas fait des signes comme personne n’en a fait, il n’y aurait point de péché à refuser de me reconnaître comme fils de Dieu», a dit aussi, avec l’insistance la plus explicite : « Mais maintenant ET ils ont vu mes œuvres ET ils me haïssent moi et mon père » (Joan., xv, 24). Dans la parabole du mauvais riche, nous entendons l’infortuné, du sein des tourments, dire à Abraham:

« Je vous en conjure, mon père, envoyez Lazare dans la maison de mon père; car j’ai cinq frères, et il leur rendra témoignage de la vérité, afin qu’ils ne viennent pas à tomber un jour, eux aussi,, dans ce lieu de tourments. » Et Abraham lui dit : « Ils ont Moïse et les prophètes, qu’ils les écoutent; alors le mauvais riche : Non, ô père Abraham, mais si quelqu’un des morts va les trouver, ils feront pénitence. Non, répond Abraham, s’ils n’écoutent ni Moïse, ni les prophètes, ils ne croiront pas davantage à un mort ressuscité » (Luc, xvi, 27-31).

Ce phénomène d’incrédulité, ainsi prévu et prédit, se réalise en acte dans l’Évangile même. Les Pharisiens voient Lazare ressuscité, et ce miracle, dit l’Évangile, provoque la foi d’un grand nombre. Du fait, certainement miraculeux, qu’Us ont sous les yeux, les Pharisiens concluent- ils pour eux l’obligation de croire? En aucune façon : dans ce fait même ils trouvent la raison décisive qu’ils cherchaient pour mettre à mort celui qui a ressuscité Lazare:

« Que ferons-nous? se disent-ils. Voilà un homme qui fait beaucoup de miracles. Si nous le laissons libre, tout le monde va croire en lui ; et les Romains viendront et c’en sera fait de notre ville et de noire nation. Ils ne pensaient donc plus, depuis ce jour-là, qu’à trouver un moyen de le faire mourir » (Joan., xi, 47-53).

Déjà, plus d’une fois, témoins de miracles éclatants, par exemple de l’expulsion de quelques démons, ils avaient soutenu que ce n’était pas par la vertu de Dieu présente en lui, mais par l’action supérieure du prince des démons lui-même, que Jésus chassait les mauvais esprits, et la réponse péremptoire du Sauveur ne les avait pas convaincus. Enfin, lorsque le plus grand des miracles éclate, quand Jésus est sorti victorieux du tombeau, les pharisiens ne se tiennent pas pour battus. Ils savaient que Jésus avait prédit sa résurrection, et, en présence des affirmations de Madeleine et des Apôtres, leur devoir semblait indique : faire une enquête sérieuse pour savoir si ce fait unique, surnaturel entre tous, mais si formellement attesté, avait quelque fondement dans la réalité. Rien de tout cela : ils ne veulent pas avoir le démenti de ce qu’ils se sont promis, de ce qu’ils ont annoncé, et c’est fort cher, sans compter, pecuniam copiosam, dit S. Matthieu (xxviii, 12), qu’ils paieront les soldats pour répandre le bruit que les disciples de Jésus sont venus la nuit, pour enlever son corps. Résumons ici, pour plus de clarté, tout ce que dit l’Évangile sur les miracles, leur existence, leur nécessité, la foi qui leur est due, l’accueil qu’ils rencontrent parmi les hommes.

I. — Bien qu’au témoignage de Jésus lui-même, l’excellence de sa doctrine suffise à en manifester la divinité aune âme de bonne volonté, cependant le même Jésus nous dit que, s’il n’avait pas fait de miracles, il n’y aurait pas de péché à ne pas croire a sa mission divine.

II — Il y a des miracles extérieurs, authentiques, auxquels le devoir de la foi est attaché, sous peine de salut.

III. — Ce sont ces miracles qui, d’ordinaire, avec laide de la grâce, convertissent ceux qui viennent à la foi.

IV. — Enfin il y en a qui voient ces miracles aussi bien que les premiers, et qui, néanmoins, persévèrent et même s’endurcissent dans leur incrédulité.

Cherchez maintenant les raisons de cette incrédulité. Ces raisons, Notre-Seigneur les indique avec précision dans l’Évangile; on les voit souvent signalées dans de nombreux passages du Nouveau, comme de l’Ancien Testament; tous les philosophes chrétiens, en étudiant, dans l’âme humaine, les procédés de la raison et le mystère de la liberté, s’accordent à montrer toujours l’homme, et jamais Dieu responsable de cette incrédulité qui entraîne la perte des âmes, et s’oppose irrémédiablement au salut. Enfin les faits sont là, innombrables, évidents, quotidiens, qui nous font assister à ce drame si douloureux pour une âme chrétienne : d’autres âmes qui nous sont chères, très richement douées parfois du côté des dons naturels, visitées par les mêmes grâces qui nous ont convertis nous-mêmes, tombant, orgueilleuses et satisfaites d’elles-mêmes, dans le gouffre mortel de l’incrédulité.

L’Évangile n’est pas un traité de philosophie; c’est sans doute, de l’aveu de tous, un trésor de doctrine où, depuis sa promulgation, tout esprit pensant est venu puiser, et d’où est sortie manifestement la civilisation moderne. Mais (les Pharisiens l’avaient déjà remarqué) jamais le divin docteur ne parle comme un homme qui annonce une doctrine imaginée par lui-même ou apprise d’un autre homme, un système soumis à la discussion. C’est un maître qui affirme au nom de Dieu, qui promulgue les lois de Dieu son père, auquel il est consubstantiel : « ego et pater unum sumus ». A ce titre il connaît à fond l’homme, sa créature, et rien n’est caché à ses yeux. Aussi nous le voyons devinant les pensées secrètes de ses disciples, de ses ennemis. «Jésus, dit S. Jean, ne se fiait pas à eux, car il les connaissait tous, et il n’avait pas besoin que personne lui rendît témoignage de l’homme, car il savait ce qui était dans l’homme.»[1] Qui donc oserait contredire le maître divin lorsque, témoin et juge sévère de l’incrédulité des scribes et des Pharisiens, il leur dit : « Eh! comment pourriez-vous croire vous qui recherchez la gloire que vous vous donnez les uns aux autres, et non la gloire qui vient de Dieu seul? » (Joan., v, 44).

Cet oracle divin n’est-il pas une observation psychologique d’une absolue justesse, aux yeux de tout homme sincère?

Supposez, en effet, ce cas si ordinaire : un homme qui, pour but de son activité intellectuelle, morale ou physique, se propose exclusivement sa propre satisfaction personnelle, le triomphe de son orgueil, le succès de son ambition, l’accroissement de son bien-être : n’est-il pas clair qu’un tel homme éprouvera une répugnance invincible, un préjugé insurmontable, à l’égard de toute doctrine qui viendra contredire la passion qui le domine? Une vérité pure, austère, sollicite mon adhésion : la condition essentielle pour que je la lui donne, c’est que je sois disposé à l’accepter pour cette seule raison qu’elle est la vérité, la vérité qui est le reflet de Dieu, et, pour parler comme l’Évangile, « une gloire qui émane de Dieu seul ». Les Pharisiens n’en sont pas là. Ils sentent leur pouvoir menacé par l’enseignement de Jésus, c’est assez : sa doctrine est condamnée d’avance. Jésus les renvoie à Moïse et aux Écritures : ils ne les ouvrent pas. Jésus les rend témoins de ses miracles : ils s’en scandalisent. Les miracles qu’ils voient ne leur suffisent pas, ils en réclament d’autres qu’ils savent d’avance qu’on leur refusera. Quand Jésus a ressuscité Lazare, épouvantés de la popularité que ce miracle lui assure, ils se disent sans hésiter : « Hâtons-nous de le faire mourir, car tout le monde va croire en lui. » Quand ils le voient sur la croix ils se figurent enfin tenir leur triomphe définitif: « s’il est vraiment fils de Dieu qu’il descende de la croix et nous croirons en lui! » Jésus fait mieux, il se laisse mourir, ensevelir, mettre au tombeau et il en sort vivant le troisième jour. Ce miracle même, dont la renommée arrive aux Pharisiens, ne les émeut pas : ils refusent de regarder. Comment pourraient-ils voir?

Or, je le demande à toute âme droite, qu’est-ce qu’une incrédulité de cette sorte peut prouver contre la réalité du miracle? Mais aussi qui ne voit, dans l’état d’âme de ces Pharisiens, le type le plus expressif, le plus vrai, de nombre de ceux qui se font gloire de ne pas croire aux miracles? Les savants incrédules sont-ils moins que les Pharisiens préoccupés de la crainte de perdre leur crédit, si la foi venait à prévaloir? Et que dire de la masse des ambitieux, des voluptueux, des riches sans conscience? Qu’y a-t-il de commun entre leur façon d’entendre et de pratiquer la vie, et la sévérité de l’Évangile? Si l’Évangile a raison, ils se sentent perdus; il faut donc que l’Évangile ait tort. S. Paul comparaît devant le proconsul Félix qui s’intéresse fort à tout ce que l’Apôtre lui dit de la foi en Jésus-Christ :

« Mais, comme Paul lui parlait de la justice, de la chasteté et du jugement à venir, Félix en fut effrayé et lui dit : C’est assez pour cette fois, retirez-vous ; quand j’aurai le temps je vous ferai venir, et parce qu’il espérait que Paul lui donnerait de l’argent, il l’envoyait quérir souvent et s’entretenait avec lui » (Act., xxiv, 25-26).

Paul fit-il quelques miracles devant Félix? L’histoire ne le dit pas, et la chose n’est pas probable. Un miracle, en effet, ne l’aurait pas converti; il n’aurait pu qu’accroître la culpabilité d’un homme justement aveugle parce qu’il était injuste impudique et avare: son incrédulité eût été une faute de plus à porter à ce tribunal de Dieu, dont la pensée l’effrayait sans le toucher. Autre exemple: le même S. Paul est conduit devant l’Aréopage par des philosophes épicuriens et stoïciens, curieux d’entendre celui qu’ils prennent pour un de ces parleurs de philosophie dont ils amusent leur loisir. Qui ne prévoit le succès, sur de telles gens, de la prédication de l’Apôtre? Parler de la résurrection à des philosophes dont les uns ne croient qu’à la matière, dont les autres sont de purs panthéistes, n’est-ce pas aller au-devant d’un échec certain? Aussi les uns se mettent à rire, les autres haussent les épaules; ils renvoient l’Apôtre aune autre fois. Un miracle les eût-il convertis? Nullement. Quelques-uns cependant, un juge et une simple ouvrière, croient à sa parole. Pourquoi? C’est qu’ils n’avaient, eux, aucun système à défendre, et que leur coeur droit, dans la vérité, ne cherchait que la vérité, c’est-à-dire « la gloire qui vient de Dieu seul ».

L’histoire des Pharisiens de l’Évangile, des Épicuriens et des Stoïciens, des Actes des apôtres, se poursuit à travers les siècles, toujours identique à elle-même. Pour admettre le surnaturel, pour se rendre à un miracle même évident, une préparation morale est nécessaire. Qu’entre le fait le plus concluant et l’adhésion à la doctrine que ce fait suppose, il se trouve l’écran d’une passion, d’un intérêt, d’un système, d’un préjugé scientifique, aussitôt nous voyons se réaliser, dans sa plus stricte littéralité, le mot tant répété dans nos saints livres : « Ils ont des yeux et ils ne voient pas; des oreilles et ils n’entendent pas, ils refusent de comprendre de peur d’être forcés d’agir » conformément à la vérité qu’ils ont entrevue. Et, en sens inverse, se vérifie la grande parole de Notre-Seigneur en S. Jean : « Qui facit veritatem venit ad lucem. Celui-là vient à la lumière qui fait la vérité », c’est-à-dire qui aime la vérité, qui la cherche avec conscience, qui pratique tous les devoirs qu’elle lui impose, dans la mesure même où il les connaît.

R. P. LESCOEUR. Faits surnaturels contemporains les vrais et les faux miracles. 12 ed. Paris: A. Roger et F. Chernoviz, 1900. Chapitre XII p. 167-173.

[1] Joan., a, 23; Malth., ix, 4 ; XII, 25; Luc, vi, 8; ix, 47; xi, 17.


SOURCE VRAIE DE LA PATIENCE – Saint Augustin

patience

Mais il faut savoir d’où nous vient la patience véritable et qui mérite d’être appelée de ce nom; car il y en a qui l’attribuent aux forces que la volonté humaine tire du fonds de sa liberté, au lieu de l’attribuer à celles que lui donne la grâce de Dieu. Cette erreur vient de l’orgueil de l’homme, et ce sont là les pensées de ceux dont parle le psalmiste quand il dit: ” Nous avons été la risée de ceux qui sont riches à leurs propres yeux, et le mépris des orgueilleux “.[1]

                Cette sorte de patience n’est donc pas ” la patience des pauvres “, qui ” ne périt point”[2] et qu’ils reçoivent de Celui qui est souverainement riche, et à qui le psalmiste a dit : ” Vous êtes mon Dieu, vous n’avez que faire de mes biens”[3], de ce Dieu ” de qui vient tout don parfait et toute grâce excellente”[4], et à qui s’adressent ” les cris du pauvre et de l’indigent qui loue son nom”[5] et qui ” demande, cherche et frappe à la porte”[6] , en disant “Mon Dieu, tirez-moi des mains du méchant, des mains de l’injuste qui viole votre loi; car vous êtes ma patience, Seigneur, vous êtes mon espérance dès mes plus tendres années”.[7]

                Mais ceux qui sont ” riches à leurs propres yeux”[8], et qui ne veulent pas reconnaître leur indigence devant le Seigneur, aimant mieux se glorifier d’une fausse patience que de lui demander la véritable, ” se moquent des pensées du pauvre, qui met son espérance en Dieu”[9], et ils ne prennent pas garde qu’attribuer autant qu’ils font à leur volonté, c’est-à-dire à la volonté de l’homme, puisqu’ils sont hommes, c’est encourir ” la malédiction prononcée ” par le Prophète ” contre ceux qui mettent en l’homme leur espérance”.[10]

                Ainsi, lorsqu’il arrivera que pour éviter de plus grands maux, ou de peur de déplaire aux hommes, ou par la complaisance que leur donnent pour eux-mêmes ces forces prétendues de leur volonté superbe, ils souffriront avec fermeté des choses dures et fâcheuses, il faudra leur dire de cette fausse patience, ce que l’Apôtre saint Jacques dit de la fausse sagesse, que ” ce n’est pas là celle qui vient d’en haut “, mais une patience ” terrestre, animale, diabolique”.[11] Car la patience des orgueilleux n’est pas plus véritable que leur sagesse; et c’est celui qui donne la vraie sagesse, qui donne aussi la véritable patience, selon que lui chantait un véritable pauvre d’esprit, lorsqu’il disait: ” Sois soumise à Dieu, ô mon âme, car c’est de lui que vient ma patience”.[12]

IN OEUVRES COMPLÈTES DE SAINT AUGUSTIN, traduites pour la première fois en français sous la direction de M. Raulx, Tome XII, p. 299. BAR-LE-DUC,1866.


[1] Psal. CXXII, 4.

[2] Id. IX,19

[3] Psal. XV, 2.

[4] Jac. I, 17

[5] Psal. LXXIII, 21

[6] Matt. VIII, 7

[7] Psal. LXX, 4, 5

[8] Id. CXXII, 4

[9] Id. XIII, 6

[10] Jerem. XVII, 5

[11] Jac. III, 15

[12] Psal. LXI, 6

Validez y licitud en materia sacramentaria

       baptismo     Pe. Jorge Maria Storni, EP

 

            A la autoridad eclesiástica competente le corresponde establecer los requisitos para la validez y licitud, normas éstas que deben ser obedecidas por todos los fieles y en toda la Iglesia universal. En concreto la legislación del Código de Derecho Canónico rige exclusivamente para la Iglesia latina.

            Antes de entrar en la materia propia de cada uno de los Sacramentos, el Código legisla  principios generales.

            Una primera ley invalidante es la que dispone que nadie puede ser admitido a los demás sacramentos, sin haber recibido el bautismo.[1] Los sacramentos del bautismo, de la confirmación y de la santísima Eucaristía están tan íntimamente ligados entre sí, y todos son necesarios para la plena iniciación cristiana.[2] Para recibir lícitamente los sacramentos del orden sagrado es necesario haber recibido previamente el sacramento de la confirmación[3]. Para el matrimonio es requerido este sacramento, se no resultar con eso grave incomodo.[4]

            Así podríamos sintetizar en general, las condiciones de validez, siguiendo a Santo Tomás, prototipo entre los teólogos de la escolástica:

 

1.         Todo sacramento es eficaz a partir de la institución divina;

2.         Si en la administración de un sacramento no se observa todo cuanto fue             determinado por Jesucristo en la institución del mismo, la acción realizada carece de eficacia y, por lo tanto, no confiere la gracia;

3.         Tal sólo por especial y extraordinario privilegio divino concedido por Jesucristo, que no ligó su poder infinito a sus criaturas, los sacramentos, puede la Iglesia alterar el signo sacramental;

4.         En la administración de un sacramento no es lícito emplear una forma distinta a la determinada por Jesucristo, aunque sus términos sinónimos expresen el mismo sentido conceptual de aquella.[5]

 

            El citado autor señala que en la concepción de Santo Tomás, Nuestro Señor Jesucristo al  instituir los sacramentos determinó de manera explícita la materia y la forma de cada uno de ellos, y que a partir de la institución divina, el efecto causal de la gracia queda vinculado a la estructura material del signo sacramental determinado en concreto en el momento de la institución. Siguiendo el principio aristotélico según el cual la forma da el ser a la cosa, resulta lógico concluir que ha de ser Jesucristo quien determine la forma de cada sacramento, y todavía más lógico negar que nadie, salva la explícita y manifiesta voluntad divina pueda alterarla.

            Según el mismo autor, Lutero se equivocó al darle a estos principios de la escolática consecuencia de una radicalidad que no encuentran fundamento en la Sagrada Escritura. Cuando en ésta no encuentra la especificación del rito, Lutero niega que se trate de un auténtico sacramento. A otras consecuencias muy distintas hubiese llegado de haber tenido presente el comportamiento pastoral seguido por los Santos Padres.[6]    

STORNI, Jorge. La misión de santificar de la Iglesia Católica y el sacramento de la reconciliación.  Mestrado em Direito Canônico — Pontifício Instituto de Direito Canônico do Rio de Janeiro, 2009. p. 7-9.
 




[1] Can. 842§1

[2] Cf. Can. 842§2

[3] Cf. Can. 1033

[4] Cf. Can. 1065§1

[5] Cf. Arnau Ramón, Tratado General de los Sacramentos, BAC, Madrid, 2003. Pág. 137

[6] Cf. Op. cit. Pág. 138

Los sacramentos de vivos y la gracia

papa-comunhao(Del libro “Teología Moral para Seglares”, del Pe. Royo Marín, O.P. ‑ B.A.C., 1958, vol. II, pp. 32‑33:)

Los sacramentos de vivos se ordenan a la segunda gracia, o sea, a aumentarla en un sujeto que ya la posee. Pero puede ocurrir que produzcan accidentalmente la primera gracia en un sujeto desprovisto de ella. Para ello es preciso que se reúnan estas dos condiciones indispensables:

1o. Que el individuo desprovisto de la gracia se acerque de buena fe a recibir un sacramento de vivos (v. gr., ignorando que se encuentra en pecado mortal). Si falta esta buena fe, o sea, si el individuo se acerca a recibirlo a sabiendas de que está en pecado mortal, comete un horrendo sacrilegio y de ninguna manera recibe la gracia sacramental.

2o. Que se acerque a recibirlo con atrición sobrenatural de sus pecados. No se requiere la perfecta contrición, porque entonces ya se acercaría en estado de gracia y estaríamos fuera del caso presente.

La razón de esta doctrina tan consoladora está en la definición dogmática del concilio de Trento, según la cual ‑ como ya vimos ‑ los sacramentos de la Nueva Ley confieren la gracia a todos los que no les ponen óbice. Ahora bien: el pecador atrito que sin conciencia de pecado mortal se acerca a recibir un sacramento de vivos (v. gr., el que se confesó bien de sus pecados con dolor de atrición, pero no recibió válidamente la absolución por descuido o malicia del confesor y se acerca a comulgar ignorando que no ha sido absuelto válidamente) no pone obstáculo alguno, encuanto está de su parte, a la infusión de la gracia. Porque la única indisposición que repugna a la infusión de la gracia es la mala voluntad aferrada a sabiendas al pecado; pero el pecador atrito que se cree de buena fe en gracia de Dios no tiene su voluntad aferrada al pecado, sino todo lo cotrario; sus disposiciones subjetivas son exactamente iguales que las del que está en posesión real de la gracia de Dios; luego no hay ninguna razón para que no reciba la gracia sacramental que lleva consigo el sacramento de vivo; luego la recibe de hecho, según la declaración del concilio Tridentino.

Corolarios: 1o. Es muy conveniente hacer un acto de perfecta contrición antes de recibir cualquier sacramento de vivos, para que éste produzca directamente su efecto propio; pero, al menos, hay que hacer siempre un acto de atrición sobrenatural, para recibir la gracia indirectamente si de hecho no la poseyéramos aún.

2o. La persona que acaba de recibir de buena fe (o sea, sin conciencia de pecado grave) y al menos con atrición de sus pecados un sacramento de vivos (v. gr., la eucaristía), puede estar moralmente cierta [4] de hallarse en estado de gracia, más todavía que después de una buena confesión. Esta doctrina es altamente consoladora para personas escrupulosas, que nunca acaban de tranquilizarse por mucho que se confiesen”.

[Nota 4] Se trata únicamente de una certeza moral, que excluye cualquier duda imprudente; no de una certeza absoluta o de fe, que nadie puede tener en este mundo a menos de una especial revelación de Dios, como declaró expresamente el concilio de Trento (D 802; cfr. 823‑826)”.

La razionalità della creazione

Pe. Eduardo Caballero, EP

 

universo

La razionalità della creazione[1]

 

La suprema razionalità del Creatore si riflette nella sua creazione. L’unità della creazione ha come conseguenza che una tale razionalità si trova in tutto il creato, nel suo insieme e in ognuna delle sue parti, in diversi gradi. La Sacra Scrittura ne fa menzione in modo palese[2]. Dalla intelligibilità del cosmo ne derivano il suo ordine e armonia, che però soltanto possono essere percepiti attraverso una filosofia realista[3], e così essere riferiti alla assoluta razionalità del Verbo di Dio, come al suo modello, mediante il quale tutto è stato creato. La razionalità dell’universo implica che Dio non ha creato in modo cieco, bensì secondo un disegno sapiente, un piano concreto di salvezza. In questo modo, sono escluse le ipotesi di un mondo apparso per caso o come conseguenza più probabile di un fenomeno caotico senza senso. Invece, questa razionalità parla chiaramente del disegno e della finalità volute da Dio per le sue creature[4]. Non si tratta semplicemente di una armonia interna alle singole creature, bensì dell’espressione della sollecitudine provvidente di Dio nei confronti di esse, la quale costituisce una economia di rivelazione e di salvezza in Gesù Cristo[5]. L’unità, la bontà e la verità poi della realtà creata rivelano la bellezza di tutto ciò che Dio ha fatto.

 

CABALLERO, Eduardo.La teologia dell’interpretare il Big Bang secondo l’approccio del Prof. Paul Haffner. Tesi di Licenza. Pontificia Università Gregoriana. Roma, 7 maggio 2009.


[1] Cf P.M. HAFFNER, Il mistero, 86-88.

[2] Ad esempio, Sap 7,17-21.

[3] Cf supra, cap. 1, § 1.2.

[4] Vedere, ad esempio, M. HELLER, «Teilhard’s vision of the world and modern Cosmology», Zygon 30 (1995) 11-23.

[5] Un approccio interessante al tema della razionalità del cosmo si può trovare in A. MCGRATH, Scienza e fede in dialogo. I fondamenti, Torino 2002, 51-101. Sono anche interessanti le recenti riflessioni J. POLKINGHORNE, «Afterword: Some Further Reflections», in WATTS, F., ed., Creation: Law and Probability, Hampshire (England) – Burlington (VT, USA) 2008, 189-192.

Gênese do conceito de contemplação

Inácio Almeida, EP

capela-subiacoA palavra contemplação tem sua origem etimológica na raiz latina templum (do grego temnein: para cortar ou dividir). É formada de cum, com, e templum, templo. Significa também examinar e considerar profunda e atentamente uma coisa, já espiritual, já visível e material, olhar com determinação ou complacência a uma pessoa.

Na filosofia grega a palavra contemplação era denominada teoria, por oposição a práxis, ou ação. Por isso, os gregos designavam a vida contemplativa como vida teórica, por oposição à vida ativa, ou vida prática. Alguns autores afirmam que a etimologia da palavra “teoria” deriva de um verbo grego que significa ver; deste verbo é que se origina também o nome Deus, que em grego se diz Teos, ou “Aquele que vê”. Com o tempo, essa nomenclatura veio também a ser utilizada na língua latina, resultando dizer que a vida teórica seria a vida contemplativa e a práxis, a vida ativa.

Porém, contemplar no sentido teológico, e é deste que trataremos, é segundo São Tomás (S. The. II, II, qq, 179-182) “a aplicação voluntária do entendimento aos dogmas sobre a divindade com o desejo vivo de gozar das grandes verdades nelas contidas” ou de acordo com Tanquerey (1955, p. 44) “uma intuição ou vista simples e afetuosa de Deus ou das coisas divinas.” Pode ser chamada também de contemplação adquirida quando “é fruto da nossa atividade auxiliada pela graça; infusa, quando, ultrapassando essa atividade, é operada por Deus com o nosso consentimento”.

Quanto ao uso da palavra “contemplação” nas Sagradas Escrituras, ele propriamente não acontece. No entanto, “se a expressão não existe, a realidade é claramente descrita”, especialmente no Capítulo X do Evangelho de São Lucas:

Indo eles de viagem, entrou Jesus em uma povoação; e uma mulher, de nome Marta, recebeu-O em sua casa. Tinha esta uma irmã chamada Maria, a qual, sentando-se aos pés do Senhor, ouvia a sua palavra. Marta, pelo contrário, andava atarefada com muito serviço. Deteve-se, então, e disse: “Senhor, não te importas que minha irmã me tenha deixado só a servir? Diz-lhe, pois, que me ajude”. Mas o Senhor respondeu-lhe: “Marta, Marta, inquietas-te e te confundes com muitas coisas; mas uma só coisa é necessária, e Maria escolheu a melhor parte, que não lhe será tirada” (Lc 10, 38-42).

 

Entretanto, cumpre recordar que as primeiras referências sobre a importância da contemplação são anteriores ao cristianismo. Sabe-se que Platão tratou desse tema, bem como Aristóteles e Plotino. Mas, sobretudo no século V com o início do monaquismo cristão, é que a primazia da contemplação sobre a ação foi mais defendida, e teve como um dos seus principais expoentes um monge chamado João de Cassiano, o qual publicou uma série de 24 conferências, que são um relato das conversas tidas entre ele e os monges que habitavam o deserto do Egito a respeito de diversos temas da vida espiritual.

Essas conferências foram elogiadas por São Bento[1] em sua regra. São Domingos, o fundador da Ordem dos Pregadores, à qual pertencia São Tomás, dedicou-se com especial empenho ao estudo desses textos[2]. Tocco (2007) nos recorda que o próprio Aquinate, à imitação de seu fundador, lia com frequência algumas páginas das 24 Conferências[3].

ALMEIDA, Inácio. A contemplação no ensino de São Tomás. in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho, n. 5, out-dez 2008. p. 60-62.


[1] In: Regra de São Bento, C. 73.

[2] Conf. Beato Jordão de Saxônia: Origem da Ordem dos Pregadores, C.8. In: Santo Domingo de Guzman, su vida, su orden, sus escritos; Madrid, BAC, 1947; p. 170.

[3] Conf. In Guillelmus de Tocco: Vita Sancti Thomae Aquinatis, C. 21.

São Tomás e as “substâncias separadas”

anjosPe. Arnobio José Glavam, EP

Não foi por acaso que São Tomás de Aquino recebeu o título de Doctor Angelicus, atribuído na segunda metade do século XV pelo papa São Pio V.[1] De fato, a maestria com que o Aquinate tratou os temas metafísicos, a arte com que decantou e purificou as obras filosóficas da antiguidade — especialmente de Aristóteles — e a teodicéia por ele empreendida, fizeram dele um dos maiores autores medievais e, porque não, de toda a cristandade, tendo revelado uma inteligência incomum para dissertar os temas mais complexos e delicados. Porém, além dos dons naturais indiscutivelmente presentes nele, vivia de tal forma em contemplação e absorto em suas altas cogitações, que lhe chegaram a chamar de “bos mutus”,[2] por sua grandeza de espírito e de corpo e sua constante elevação de alma. Junto com seu exemplo e santidade de vida, parecia pertencer a uma natureza mais próxima do Céu do que da terra.

Também ao analisarmos a extensa obra legada pelo santo dominicano, encontramos uma intensa alusão aos anjos, quer na sua Suma Teológica, em que lhes dedica mais de dez artigos, quer nos numerosos escritos a ele atribuídos. Considerada a sua opera omnia, uma referência a estes seres está presentes em mais de 30 obras que a nós chegaram, sem contar com aquelas cuja incerteza de terem sido escritas sob a sua pena persiste.

Um dos expoentes máximos da metafísica medieval é o seu tratado acerca das Substâncias Separadas — Tratactus de Substantiis Separatis — escrito entre 1272 e 1273 e não terminado devido ao seu falecimento.           

Remando contra a corrente da época que afirmava serem os anjos portadores de matéria e de forma, São Tomás de Aquino discorre as idéias da antiguidade mostrando as semelhanças e dessemelhanças entre Platão e Aristóteles, expõe e refuta algumas idéias de Avicebrão e salienta a doutrina do Pseudo-Dionísio Areopagita a fim de salientar o que lhe parece mais ortodoxo de acordo com Igreja Católica. Não se poupa a críticas aos maniqueus, a certas doutrinas dos platônicos e, mesmo a Orígenes. Dessa forma, prova pela argumentação, por argumentos tirados da Sagrada Escritura e pelo raciocínio lógico haverem substâncias separadas da matéria, postas no pináculo da criação, que se relacionam enquanto essência com o ser, o que explica a sua pura espiritualidade, que foram tiradas por Deus “ex nihilo” e são distintas entre si, havendo mesmo aqueles que se podem chamar de “bons” — os anjos — e de “maus”, não por natureza mas por corrupção, e que são os demônios.

 

GLAVAN. Arnobio José. De substantiis separatis. in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho, n. 5, out-dez 2008. p. 127-128.

[1] Cf. Discurso do Papa João Paulo II na Visita ao Pontifício Ateneu Internacional. “Angelicum”, 17 de Novembro de 1979.

[2] Ver NASCIMENTO, Carlos Arthur R. Santo Tomás de Aquino – o boi mudo da Sicília. São Paulo: EDUC. 1992.