Victimae Paschali laudes – Testimonianza secolare dell’efficacia evangelizzatrice del Pulchrum

Pe. Eduardo Caballero, EP

In mezzo alla giocondità, il pensiero sacro della festa correnteTesto

«Prendevano posto a mensa imbandita nel gran triclinio di Leone III1, il cui mosaico absidale esiste tuttavia sulla piazza lateranense […] Intorno al Papa sedevano a mensa in abiti sacri, a destra i cardinali vescovi e preti, a sinistra l’arcidiacono, il primicerio cogli alti ufficiali di corte. Nel mezzo dell’aula era il leggio coll’omiliario, donde a metà del banchetto un diacono leggeva un tratto dei Santi Padri. Ma la lettura non durava a lungo: il Pontefice mandava un accolito ad invitare la schola, perché eseguisse qualche Sequenza del suo repertorio in onore del Natale […] e dopo che i cantori avevano dato prova della loro valentia musicale, erano ammessi a baciare il piede al Papa, il quale bonariamente offriva a ciascuno una coppa di vino ed un bisante2»3.

Con questa suggestiva descrizione – ambientata nel giorno di Natale, al rientro del Papa dalla celebrazione della terza Messa della solennità – il cardinal Schuster racconta il ruolo della Sequenza nella corte papale ai tempi di gloria del vecchio Palazzo Apostolico Lateranense. Sequenze simili a questa del Natale venivano eseguite volentieri per rallegrare il banchetto fraterno che il Papa (ed anche i Vescovi), offriva a tutti i ministri dell’altare al termine della sua Messa pontificale in diversi momenti dell’anno liturgico; banchetto «a cui erano invitati durante la stessa azione liturgica prima della Comunione. I cantori vi eseguivano le facili strofe sequenziali che insinuavano ancora una volta, anche in mezzo alla giocondità di quelle agapi, il pensiero sacro della festa corrente»4.

2. Genesi storica e uso liturgico

La Sequenza ha la sua origine probabilmente in alcune comunità monastiche francesi sotto l’influsso del vivace movimento liturgico carolingio della fine del secolo VIII e l’inizio del IX. Essa nacque dal vocalizzo esistente sull’ultima sillaba dell’Alleluia – cioè dal solfeggio cantato eseguitovi sull’ultima vocale (vedere figura) – e che, con termine musicale greco era detto appunto sequentia, “quello che segue”, all’Alleluia. Dai prolissi melismi dello jubilus alleluiatico – di origine probabilmente bizantina o siro-palestinese – si passò alla creazione di un nuovo testo melodico sottoponendolo agli interminabili vocalizzi neumatici5 orientali. Le sequenze sangalliane6, che per molto tempo furono ritenute come primitive, mostrarono poi d’essere lo sviluppo ulteriore di un tipo preesistente in Francia e in Inghilterra, forse fin dal secolo VII. I versus di queste sequenze erano disuguali e senza alcuna forma ritmica, causa l’irregolarità del vocalizzo alleluiatico che ne serviva di base. Normalmente, questi versetti venivano raggruppati in coppie di strofe uguali e parallele, che si cantavano da due cori alternati di voci bianche e voci d’uomo.

Nel secolo XI si verifica un significativo sviluppo della Sequenza. Essa comincia a staccarsi totalmente dal canto dell’Alleluia, abbandonando le forme irregolari. Le strofe acquistano un maggior equilibrio di ritmo, i versi sono più rotondi, ed incomincia ad apparire la rima. È un tipo di transizione, rappresentato assai bene dalla Sequenza Victimae Paschali laudes.

Il periodo aureo poi della Sequenza comincerà con il secolo XII, in cui verrà elevata ad una singolare perfezione artistica. È allora che appaiono alcune tra le più famose: Lauda Sion Salvatorem (1264), composta da S. Tommaso d’Aquino; Veni Sancte Spiritus, attribuita a Innocenzo III (1198-1216); e lo Stabat Mater, composto dal francescano italiano Jacopone da Todi († 1306). In tutti i paesi d’Europa le sequenze fino al secolo XVI ebbero grandissima diffusione; basti dire che le sole pubblicate raggiungono ormai il numero di circa cinquemila. Il popolo le preferiva per la loro forma semplice, che si prestava facilmente al canto collettivo in chiesa e fuori della chiesa. Nella vita della Chiesa romana però il ruolo della Sequenza fu durante molto tempo esclusivamente estra-liturgico. Ciò non vuol dire che queste composizioni poetico-musicali non piacessero anche Roma, specialmente se brillavano per artistica perfezione, anzi, la schola cantorum le eseguiva volentieri, come mostrato sopra, ma fuori delle basiliche e della Messa, in sintonia con «l’antica austerità dell’Urbe, che escludeva dalla liturgia tutti i canti che non provenivano dalla Sacra Scrittura»7. Per questo motivo, fino al secolo XIII, Roma si mostrò restia ad ammettere nell’uso strettamente liturgico un simile canto popolare d’ispirazione privata. Dopo diverse inclusioni ed esclusioni, associate a ricorrenze liturgiche specifiche, la riforma di S. Pio V finì per definire le sole quattro che sarebbero consacrate dall’edizione tipica del Messale Romano del 1570: Victimae paschali laudes (Pasqua); Veni, Sancte Spiritus (Pentecoste); Lauda, Sion, Salvatorem (Corpus Domini); Diesirae, dies illa (Defunti). La quinta sequenza finora ad uso liturgico, Stabat mater dolorosa, è stata introdotta da Benedetto XIII nel 1727, per la festa mariana dei Sette Dolori8.

3. Descrizione della Sequenza Pasquale

La Sequenza di Pasqua – la più antica ad uso liturgico attualmente – è attribuita a Vipone o Wipo di Burgundia († d. 1048), cappellano alla corte degli imperatori Corrado II9 e Enrico III10, e dal quale si conosce poco. Nei tempi antichi, era eseguita, come abitualmente le sequenze, a due cori, come detto sopra, in modo da mettere in risalto il dialogo che ne è dimensione costitutiva. Alcune delle sue caratteristiche formali attuali sono le seguenti:

a) Il testo che compare nel Messale è incompleto, giacché «manca […] alla quinta strofa la sua corrispondente [come si può apprezzare nel quadro in seguito], che diceva:

Credendum est magis soli

Mariae veraci,

Quam iudeorum

Turbae fallaci»11.

b) «L’originario praecedet suos [IV strofa], all’epoca della revisione Piana del Messale venne cangiato, per svista probabilmente paleografica, in praecedet vos»12, errore che però non evitò che questa forma rimanesse consacrata dal nuovo Messale.

c) L’Amen e l’Alleluia sono posteriori. Ecco il testo separato per ogni coro:

1) Victimae paschali laudes immolent Christiani.

2) Agnus redemit oves;

Christus innocens Patri

reconciliavit peccatores.

2ª) Mors et vita duello

conflixere mirando:

Dux vitae mortuus

regnat vivus.

3) Dic nobis Maria:

Quid vidisti in via?

3ª) Sepulcrum Christi viventis,

et gloriam vidi resurgentis;

4) Angelicos testes,

Sudarium et vestes.

4ª) Surrexit Christus spes mea,

Praecedet vos (suos)

in Galilaeam.

5) 5ª) Scimus Christum surrexisse

a mortuis vere.

Tu nobis, Victor Rex,

miserere.

Amen. Alleluia.

4. Lettura teologica della Sequenza Victimae Paschali laudes

Uno degli aspetti che risulta più evidente dal punto di vista teologico nel considerare il testo di questa sequenza è la continuità con il pensiero dei Padri nel senso che la festa pasquale non è semplicemente quella della Risurrezione ma più largamente quella della nostra Redenzione, compiuta attraverso tutti gli avvenimenti che vanno dalla Passione di Cristo fino alla sua Risurrezione, senza escludere nessuno. «Non c’è Pasqua senza l’Agnello che effonda il suo sangue»13. Le parole iniziali della prima strofa, che danno nome alla sequenza, sono ben significative in questo senso: Victimae Paschali. I due aspetti dunque sono inseparabili. Si parla sempre più della missione evangelizzatrice della Chiesa come del suo compito essenziale poiché si è ripresa coscienza, dopo il concilio Vaticano II, di come la Chiesa sia essenzialmente missionaria in tutte le circostanze14. D’altra parte, sappiamo che il kêrygma, la catechesi e la parenesi sono «le tappe di un unico processo di evangelizzazione fin dagli inizi della chiesa»15. È interessante notare che possiamo ritrovare queste categorie nella Sequenza Pasquale non certo come tappe cronologicamente succedute ma come momenti logicamente articolati in essa, esprimendo in questo modo il suo intimo legame con la vita della Chiesa, che ha accompagnato per lunghi secoli.

4.1 La catechesi: Verum

La catechesi si caratterizza per le spiegazioni delle Scritture alla luce dell’evento cristiano al fine di approfondire maggiormente la fede dei credenti. Si tratta cioè di uno sviluppo ermeneutico di esse allo scopo di coglierne il sensus plenior, cioè la verità intera e più profonda. Esempi di questa categoria sono i seguenti:

Agnus redemit oves; Christus innocens Patri reconciliavit peccatores.

Solo il vero Agnello, sgozzato, è in grado di redimere tutto il gregge; è per l’opera di Cristo innocente che si realizza la riconciliazione dei peccatori col Padre.

Mors et vita duello conflixere mirando: Dux vitae mortuus regnat vivus.

C’è in questo racconto un misterioso rapporto fra vita e morte, che S. Agostino esplicita ammirevolmente: «Rese partecipi della sua vita quelli di cui aveva condiviso la morte. Noi infatti non avevamo di nostro nulla da cui aver la vita, come lui nulla aveva da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita»16. Specialmente al santo Vescovo d’Ipona dobbiamo tra l’altro la «basilare sintesi cristologica»17 tra la tradizione asiatica della Pasqua-passione e quella alessandrina della Pasqua-passaggio, ambedue esplicitamente rappresentate nel testo della Sequenza Pasquale: «Victimae paschali», «Agnus redemit oves», «Mors et vita duello» e «Dux vitae mortuus» nel primo caso, e «Christus innocens Patri reconciliavit peccatores», «regnat vivus», «Christi viventis», «gloriam […] resurgentis», «Surrexit Christus» e «Christum surrexisse a mortuis vere» nel secondo.

Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis.

Ecco i due segni classici di credibilità della risurrezione: il sepolcro vuoto e le apparizioni del Cristo risorto.

Credendum est magis soli Mariae veraci, quam iudeorum turbae fallaci.

Il testo della strofa mancante lascia trasparire un certo sdegno proveniente dalla pietà popolare. Riferimento evidente al racconto di Matteo: «Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi» (Mt 28, 11-15), e forse anche a quelle parole di Paolo riferite da Luca: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei» (At 20, 19).

4.2 La parenesi: Bonum

La parenesi differisce dalla catechesi per l’orientamento, che è quello del comportamento morale, e per il tono, che è quello dell’esortazione: l’appello a portare una buona condotta. I cristiani, chiamati da Dio a divenire suoi figli, devono vivere conformemente a questa vocazione, che comporta determinati precetti. È l’obbedienza a quei precetti quella che determina il buon comportamento morale. Nella Sequenza di Pasqua il precetto, l’appello viene espresso nella prima strofa:

Victimae paschali laudes immolent Christiani.

Più che un semplice invito alla lode di Dio, si tratta di una vera sollecitazione. Implicitamente si propone questa lode come degna retribuzione al Redentore nella ricorrenza della solennità pasquale, come atteggiamento condegno nei confronti di un tanto grande amore di Dio per noi.

4.3 Il kêrygma: Pulchrum

È la predicazione globale della buona notizia della salvezza ad opera di Cristo: l’annuncio di questo evento e l’invito alla conversione e alla fede. Kêrygma significa esplosione, potenza diffusiva, ed è il punto di partenza e di riferimento continuo sia per la catechesi sia per la parenesi. Nella Sequenza di Pasqua ne costituisce l’oggetto materiale; è il contenuto esplicito o il sottofondo implicito di tutte le proposizioni ivi contenute, ma che acquisisce tonalità di gioiosa esultanza quando si fa riferimento espresso alla risurrezione:

Surrexit Christus spes mea.

La nostra speranza si fondamenta sulla risurrezione di Cristo!

Scimus Christum surrexisse a mortuis vere.

La proclamazione dell’evento pasquale da parte della Chiesa rende l’opera della salvezza eternamente presente. Il kêrygma attuale deve risuonare affinché Gesù sia riconosciuto e identificato come Cristo, Signore, Salvatore universale.

4.4 Conclusione eucologica

Tu nobis, Victor Rex, miserere.

Consapevoli della nostra miseria, supplichiamo l’assistenza del nostro Re Vittorioso per crescere sempre più nella fede, nella speranza e nell’amore. Non è grazie al nostro sforzo che riusciamo ad associarci al Mistero Pasquale ma per opera della misericordia di Dio.

5. Conclusione

Nonostante la riforma piana del Messale abbia eliminato dall’uso liturgico quasi tutte le sequenze ad eccezione di cinque, esse occupano indubbiamente, dal punto di vista letterario, un posto ben onorevole nella letteratura medioevale. Si può dire che, artisticamente, esse esercitarono un ruolo di grande importanza per lo sviluppo del canto popolare. In senso liturgico, risulta chiaro che le sequenze furono una delle più calde e genuine espressioni della vitalità religiosa del popolo cristiano. Siamo davanti ad un tipico esempio di utilizzo della liturgia non tanto come fonte testuale autorevole per la riflessione teologica, bensì come autocoscienza della Chiesa in preghiera, la quale costituisce in un certo qual modo, per il popolo fedele che la esegue o ascolta volentieri, una via di accesso alla Rivelazione e, quindi, un vero locus theologicus18. Non meraviglia, dunque, che la riforma di S. Pio V non abbia dubitato di conservare ad uso liturgico una simile testimonianza di fede, speranza e amore. Testimonianza, tra l’altro, corroborata dal consenso nella Chiesa universale nel suo camminare per lunghi secoli. Né si può sottovalutare la testimonianza che questa sequenza suppone alla diversità legittima nell’espressione della fede, cioè, l’inculturazione della fede tramite la pietà popolare. Ma la dimensione che, a mio avviso, dal punto di vista teologico, scaturisce in modo più illuminante dalla riflessione sulla Sequenza Pasquale si riferisce al suo rapporto con il Bello Assoluto. Il Pulchrum è, secondo l’espressione tomista, splendor veritatis, splendor bonitatis. Non c’è niente di eccezionalmente vero che, per quella stessa ragione, non partecipi in modo eminente dalla Bellezza Assoluta, né niente di esemplarmente buono che non sia parimenti bello. Così, ci si presenta ragionevole il paragone: è da uno splendente Verum catechetico e da un emblematico Bonum parenetico che scaturisce – non come cause bensì come condizioni di possibilità – il Pulchrum di un kêrygma autenticamente efficace perché affascinante. Se evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa e la sua identità più profonda, se essa esiste per evangelizzare19, la Sequenza di Pasqua può in questo senso essere intesa come una testimonianza per lunghi secoli dell’efficacia evangelizzatrice del Pulchrum kêrygmatico nella missione della Chiesa.

CABALLERO, Eduardo. La Tradizione come fonte della teologia sistematica: Elaborato sulla Sequenza Victimae Paschali laudes – Testimonianza secolare dell’efficacia evangelizzatrice del Pulchrum. Roma, (Gregoriana) 26 Maggio 2008.

1 Sala regia da pranzo, una delle più famose del grandioso antico Palazzo Apostolico Lateranense, residenza abituale dei Papi per un periodo di oltre mille anni che finì con l’esilio avignonese.

2 Moneta d’oro dell’Impero bizantino.

3 A.I. SCHUSTER, Liber sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, II, Torino 1922, 166.

4 M. RIGHETTI, Storia liturgica. III. La Messa, Milano 1966, 292.

5 Neumatici, cioè propri del canto gregoriano, e non pneumatici, propri dello spirito.

6 San Gallo: grande e importante abbazia in Svizzera, vicino a Costanza, fondata in 613 ca., per il suo influsso nel canto gregoriano durante tutto i Medioevo.

7 A.I. SCHUSTER, Liber sacramentorum. Commento ascetico, storico, liturgico al MessaleRomano. Edizione rifusa e aggiornata da Mons. Cesario d’Amato O.S.B., I, Torino 1963, 382.

8 M. RIGHETTI, Storia liturgica. III. La Messa, Milano 1966, 292.

9 Corrado II “il Salico” (ca. 990-1039), re della Germania (1024-1039) e Imperatore del Sacro Impero Romano Germanico (1027-1039).

10 Enrico III “il Nero” (1017-1056), figlio di Corrado II “il Salico”. Fu re della Germania (1028-1056) e succedette suo padre come Imperatore del Sacro Impero Romano Germanico (1039-1056). Suo figlio Enrico IV è quello del famoso episodio a Canossa nel 1077 con S. Gregorio VII.

11 M. RIGHETTI, Storia liturgica. II. L’Anno liturgico, Milano 1969, 284.

12 A.I. SCHUSTER, Liber sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, IV, Torino 1922, 75-76.

13 I. ORTIZ DE URBINA, «La pasqua nel pensiero teologico primitivo», in Orientalia Christiana Periodica 36 (1970) 452.

14 J. DUPUIS, “Evangelizzazione e missione”, in LATOURELLE, R. – FISICHELLA, R., Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990, 406-407.

15 R. LATOURELLE, “Kêrygma / Catechesi / Parenesi”, in LATOURELLE, R. – FISICHELLA, R., Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990, 627.

16 AGOSTINO, Disc. Guelf. 3, PLS 2, 545-546.

17 M. MARITANO, «La Pasqua nei primi secoli cristiani», in Rivista Liturgica 88 (2001) 99.

18 Una spiegazione più approfondita si può trovare in: Y. CONGAR, La tradizione e le tradizioni. II. Saggio teologico, Roma 1965, 215-235.353-366.

19 PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi 14.

L’atto di credere come “synthesis fidei”

Pe. José Francisco Hernández, EP

1. RAPPORTO FEDE-RAGIONEdoutores-lei

Quale è il rapporto fra il dono di Dio e la ragione umana? La ragione non può essere causa della fede, altrimenti la fede non sarebbe un dono gratuito. La fede non può essere una conclusione tipo 2+2=4. Ci sono tre orientamenti diversi per spiegare questo rapporto:

1.1  Visione analitica, razionalista del rapporto fede-ragione

Questa concezione analizza tutte e due separatamente. La ragione sarebbe una con-causa della fede. È l’atteggiamento della teologia classica.

Secondo l’apologetica classica, con la ragione si può dimostrare la fede. Ma le cinque vie di San Tommaso non sono autonome; si trovano all’interno del trattato su Dio, cioè riguardo a Dio la ragione ha qualcosa da dire. Alla fine di ogni via l’Aquinate scrive: omnes dicunt Deum. Lui non pensa che si possa credere in Dio senza la fede, non fa una filosofia prima. Secondo San Tommaso, dunque, non si può dimostrare Dio con la sola ragione, ma sì la possibilità di Dio.

1.2  Visione dialettica, fideista del rapporto fede-ragione

Il termine dialettica si usa qui in quanto contrapposizione al dialogo. Dio è così forte che non può dialogare con l’uomo. L’esponente paradigmatico di questa corrente è soprattutto Karl Barth. L’importante per un luterano è quello che Dio fa. Quello che l’uomo fa non conta nulla; deve solo accogliere. Da qui il concetto di giustificazione: è soltanto Dio che salva; non ci entrano per nulla le opere dell’uomo.

Invece, la dottrina cattolica dice che ci vuole la collaborazione con la grazia di Dio: la fede senza le opere non salva (Gc 2, 17).

1.3  Visione sintetica del rapporto fede-ragione

Secondo questa visione, il primato ce l’ha il dono di Dio. Quasi tutti i teologi cattolici sono passati dalla visione analitica a questa sintetica. Il dono di Dio è la causa della fede; la ragione ne è soltanto la condizione di possibilità. Non è una visione 1+1=2. Piuttosto corrisponde al senso della parabola del seminatore: se il seme non trova un terreno preparato non germina.

Si dice sintetica non perché sia la sintesi fra due elementi (le due correnti sopraccitate), ma perché è la sintesi di tutta la realtà, è la visione globale che racchiude tutta la realtà umana.

Non si tratta, dunque, di due piani staccati: fede e ragione, ma interconnessi. Con la fede, la ragione vede di più, viene potenziata. Il dono di Dio è illuminante. C’è un ruolo epistemologico illuminativo della fede: l’amore è più amore, l’amicizia è più amicizia. Ma anche il peccato è più profondo anche. Si può stabilire un’analogia con la unione ipostatica delle due nature, umana e divina, in Gesù Cristo: l’umanità di Gesù è nella sua pienezza perché ha il Verbo di Dio sostanzialmente unito ad essa; il primato però ce l’ha il Verbo di Dio.

2. ELEMENTI DELL’ATTO DI FEDE

Vogliamo qui analizzare l’atto di fede, l’atto di credere, come in un laboratorio. Possiamo dire che esso ha due elementi fondamentali:

2.1  L’atto di fede come dono di Dio

Il dono di Dio ha due funzioni, «gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito» (DV 5):

2.1.1  La fede come illuminazione

Il dono di Dio ha una funzione illuminativa. Il Mistero Pasquale è il grande segno del cristianesimo. Lumen Christi: Il Risorto è presente tra di noi come Luce che illumina il senso ultimo della vita; la sua ultima parola non è stata la morte, la croce, ma la luce, la risurrezione. Questo aspetto si può rilevare in diversi brani dell’Antico come del Nuovo Testamento (soprattutto Ef 1,18). Anche San Tommaso si riferisce ad esso quando dice: «Per lumen fidei vident esse credenda» (II-IIae, q. 1 a. 5 ad 1) e quando si riferisce alla «oculata fides» (III, q. 55 a. 2 ad 1).

2.1.2  La fede come orientamento vissuto, personale e comunicativo (DV 5.8; LG 12)

Il dono di Dio non illumina soltanto dall’esterno, ma incide sul cuore, sul centro della persona e, quindi, illumina il senso di tutta la vita della persona. Chi non ha fede può magari pensare che la dottrina cattolica è una regola morale buona, interessante, ma non si sentirà spinto a regolare la sua intera vita da essa.

2.2  L’atto di fede come atto umano

Per la fede, «l’uomo gli si abbandona [a Dio] tutt’intero e liberamente» (DV 5).

2.2.1  Praeambula fidei

Sono i “preamboli della fede”. È la “via preparatoria della fede” (FR 67). Si tratta di un’espressione coniata dalla Scolastica che vuol dire che la ragione è un preambolo per la fede. Nella teologia classica, i praeambula fidei avevano un ruolo fondamentale, forte; erano chiari, si sapeva con chiarezza quali erano. Nella società postmoderna tutto è più sfumato e, quindi, non è chiaro quali siano i preamboli della fede. Né la filosofia classica né l’Illuminismo erano relativisti come lo è la cultura postmoderna. La postmodernità è la prima volta nella Storia che non si sa bene come si debba fare questo dialogo tra fede e ragione. quaranta anni fa era chiaro che bisognava studiare Kant e Marx per capire la società di allora. C’è stata molta discussione su questo concetto perché può essere capito in due sensi:

– come preambula logica (non crono-logica, temporale);

– come condizione di possibilità. È questa l’interpretazione attuale nella teologia fondamentale. Sono le condizioni di possibilità per essere credente. La parabola del seminatore, come accennato prima, illustra in modo adeguato questo concetto: la terra deve essere preparata perché il seme possa fruttificare. La ragione è il soggetto della fede. Dio ha voluto il dono della libertà umana, anche se essa possa essere condizionata da tanti fattori. Non si tratta, dunque, di condizioni di possibilità soltanto teoretiche ma anche pratiche. Nella pastorale, quello che si fa è creare condizioni di possibilità per la fede.

Il n. 67 dell’enciclica Fides et Ratio parla di quattro condizioni di possibilità della fede:

a) La conoscenza naturale di Dio

Se uno non ha una apertura verso la possibilità che ci sia Dio, non crederà mai.

b) La possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel riconoscimento della sua credibilità

Se non si ammette la possibilità che Dio intervenga nella Storia e abbia lasciato delle tracce concrete, non si può aver fede.

c) La capacità del linguaggio umano di parlare in forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana

Un positivista del linguaggio dirà che il linguaggio non può esprimere Dio. È vero che Dio non si può concettualizzare tutto. Se non ci fosse la analogia non potremmo fare teologia; noi parliamo di Dio con un linguaggio analogico, comparativo. Questo argomento ha a che fare con temi scottanti oggi come oggi: semiologia, semiotica moderna.

d) La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte

È la ricerca sul senso della vita. Se uno non si domanda sul senso della vita vedrà la fede come una semplice regola morale.

2.2.2  Ratio fidei

Cosa fa un credente quando un non credente gli chiede ragione della sua fede? Solvere rationes, confutare le ragioni: non bisogna dimostrare la fede ma mostrarla, cioè smontare le ragioni dell’altro, mostrare che non sono ragioni consistenti. San Tommaso non farebbe mai quello che ha fatto l’Illuminismo: separare fede e ragione, neanche avrebbe mai usato la figura della Fides et Ratio (le due ali), perché non si tratta di due ali autonome l’una dall’altra in senso stretto. La ragione è il soggetto della fede, ma è un soggetto che può chiudersi alla fede. Quindi, quando la Fides et Ratio parla di autonomia bisogna capire bene il termine.

2.2.3  Apertura o comunicabilità della ragione

La ragione aperta è la struttura interiore – più che previa o posteriore – dell’atto di credere. La fede cioè presuppone una ragione aperta. Ci sono diverse denominazioni:

– la ragione vista come ragione vitale (Ortega y Gasset / Gómez Caffarena). Include l’intuizione, l’amore, tutta la persona, tutta la vita. È per ragione vitale che si fanno le scelte importanti nella vita.

– la ragione vista come ordine degli affetti (Sequeri). Nel suo trattato di fede, dice che la ragione da un ordine a tutto quel complesso vitale.

– la ragione vista come ragione comunicativa (Habermas). Lui sottolinea che la dimensione comunicativa non può essere dimenticata, poiché la persona umana non è soltanto azione e sfera privata. È anche importante l’amore, l’amicizia, l’etica, il volontariato, ecc.

– la ragione come ragione sapienziale (FR 81, quindi, Giovanni Paolo II). È una ragione sensitiva. Ad esempio, i Padri hanno una teologia sapienziale, molto legata nel loro caso, alla liturgia, e molto legata al cuore.

– la ragione come ragione ampia (J. Ratzinger). Doppia domanda: da dove? da dove vengo? (Origine); verso dove? verso dove vado? (Termine). In fondo, si tratta della domanda di senso.

2.3  Verso una sintesi

Ci sono diverse formulazioni che cercano di articolare il rapporto tra fede e ragione:

2.3.1  Punto di partenza:  “la interazione tra fede e ragione” (FR cap. VI)

Circolarità tra fede e ragione. Intuitivamente si potrebbe capire così: quando si muove l’una, si muove anche l’altra. Ma la fede illumina la ragione e ne da il tesoro, ci insegna ad essere veramente uomini.

2.3.2  “L’argomentazione cumulativa” (Illative sense) di J. H. Newman

Newman aveva in mente rispondere ai positivisti. L’assenso nella vita umana non è soltanto nozionale (2+2=4) ma reale: le grandi scelte della vita, ecc. Quindi, la fede non è primariamente un assenso nozionale ma soprattutto reale, vitale.

L’assenso reale si fa attraverso un senso illativo, una argomentazione cumulativa. Bisogna collegare gli indizi. La ragione umana non è un qualcosa di meramente nozionale ma ha una componente intuitiva. Si tratta di un positivismo aperto. Altri nominativi importanti su questa scia sono A. Dulles, H.J. Pottmeyer e W. Kasper.

2.3.3  “Les yeux de la foi” (P. Rousselot)

Essi «rendono possibile la conoscenza della credibilità». La fede cioè ha anche i suoi occhi. La grazia non toglie la natura ma le da la sua forza.

Questa visione ha suscitato una grande polemica all’inizio del s. XX perché sembrava protestante, troppo fideista. H.U. v. Balthasar si sentiva discepolo di Rousselot ed è stato colui che ha contribuito di più alla riabilitazione del suo maestro. Fisichella si trova anche su questa scia.

2.3.4  Teologia trascendentale

«L’affinità tra la rivelazione e la realizzazione piena della vita». In questa scia si trovano: K. Rahner, H. Fries, B. Welte ed altri. Si tratta di mettere in relazione trascendentale il dono di Dio e la ragione umana.

Per Rahner, in concreto, la ragione umana si sintetizza in tre domande: vale la pena amare? vale la pena morire? vale la pena sperare in un futuro?

2.3.5  Personalismo

«L’opzione fondamentale dell’atto di credere». In questa corrente si trovano: J. Alfaro, M. Seckler ed altri. La fede non è una cosa in più ma è qualcosa che tocca il nocciolo della persona umana. Tutto si fa intorno a questa opzione fondamentale.

2.3.6  Conclusione

«La convergenza di senso» (STh III, q. 55, a. 6 ad 1). ;Newman, K.Rahner, H.Verweyen, H.Wagner, Swinburne,SPN).

3. LA CREDIBILITÀ COME “PROPOSTA DI SENSO” TEOLOGICA, STORICA E ANTROPOLOGICA

La credibilità, come proposta sensata portatrice di senso, pieno e definitivo, parte dalle due istanze basilari dalle quali trae la sua ragion di essere: l’istanza teologica – dalla fede – e la istanza filosofica – dalla ragione – che si articola attorno alla sua duplice dimensione: quella storica e quella antropologica (FR  14).

3.1  Proposta di senso teologica

Il senso teologico pieno di un’affermazione di fede concreta parte sempre da una prospettiva di fede, che, a sua volta, parte dalla comprensione teologica della rivelazione come «vera stella di orientamento per l’uomo» (FR 15). L’auditus fidei sarà il momento fondante teologico-dogmatico della credibilità.

3.2  Proposta di senso storica

Il senso storico delle affermazioni di fede affonda le sue radici nella storia. Così, si deve tener presente che la storia include una triplice forma: quella originaria dei fatti, la forma riflessiva – o narrazione – e la forma filosofica.

3.3  Proposta di senso antropologica

Il senso antropologico di un’affermazione di fede è in diretto riferimento alla persona umana concreta. È l’apporto più decisivo del rinnovamento della teologia fondamentale contemporanea: la persona umana come essere storico radicato nell’immanenza della sua storicità; come essere indigente, bisognoso di senso definitivo; come essere alla ricerca del dono di una parola e di un senso ultimo.

4. Conclusione

La credibilità ha dunque il compito di mostrare la rivelazione come una “proposta sensata” nella sua triplice dimensione: teologica; filosofico-storica; e filosofico-antropologica. Sarà così che si potrà affermare che «sono degne di fede (credibilia) le tue testimonianze, Signore», giacché in verità «è credibile/affidabile il Dio che ci ha chiamato a vivere nella comunione con il suo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore» (1Cor 1,9).

 

HERNÁNDEZ, José Francisco. Elaborato sulla Tesi nº 4: L’atto di credere come “synthesis fidei” – Salvador Pié-Ninot. Pontificia Università Gregoriana Roma, 22 Maggio 2008.