A beleza da verdade e a verdade da beleza

Pe. José Victorino de Andrade, EP

Gostos se discutem, sim! Não é cada um com a sua verdade, pois da mesma forma que não convém à verdade ser mutável, a beleza não deveria depender de preferências ou tendências subjetivas. Se ambas fossem passíveis de volatilidade ou diversidade, não teria sentido falar em verdade ou em beleza, pois estas teriam como medida os gostos e opiniões contraditórios de cada um… Submeter os critérios de verdade e de beleza a divergências de carácter pessoal ou cronológico é próprio a uma cultura relativista com repercussões no campo da ética e da estética. A beleza e a verdade são grandes demais para ficarem sujeitas ao individualismo e ao tempo.

Antes de haver o homem, as coisas já eram belas e verdadeiras, fruto daquela bondade criadora, luz de eterna formosura, que tudo tirou do nada. Da mesma forma que o diálogo está chamado a identificar a verdade que o precede, a beleza poderá ser encontrada na criação e partilha de elementos estéticos, em busca da perfeição e do absoluto. São discutíveis, portanto, não as coisas belas e as verdades, mas as idealizações e argumentações que levem os homens a identificá-las. A verdade e a beleza não podem ser regidos pela história e pelo tempo, pelos homens e pelas ideias dominantes, mas estes é que estão chamados a sujeitarem-se e a serem regidos por aquela verdade e beleza subsistentes.

A verdade da beleza e a beleza da verdade têm a sua referência em Cristo, ao mesmo tempo Verdade (Jo 14, 6) e beleza que salva.[1] Ambas se impõem por si e não são passíveis de esconder debaixo do alqueire (Mt 5, 15) e por isso devem conduzir ao testemunho. Quem contempla e se encontra com Cristo, fato constitutivo do ser cristão (Deus Caritas Est 1), não pode senão comunicar esta experiência. A flecha da beleza que nos atinge tem sua origem no mais belo entre os filhos dos homens (Sl 45, 3).[2] Dele provém e para ele atrai.


[1] Quanto à beleza, encontra-se um excelente texto sobre o pensamento de Bento XVI em RATZINGER, Joseph. A Caminho de Jesus Cristo. Coimbra: Tenacitas, 2006.

[2] Idem.

L’atto di credere come “synthesis fidei”

Pe. José Francisco Hernández, EP

1. RAPPORTO FEDE-RAGIONEdoutores-lei

Quale è il rapporto fra il dono di Dio e la ragione umana? La ragione non può essere causa della fede, altrimenti la fede non sarebbe un dono gratuito. La fede non può essere una conclusione tipo 2+2=4. Ci sono tre orientamenti diversi per spiegare questo rapporto:

1.1  Visione analitica, razionalista del rapporto fede-ragione

Questa concezione analizza tutte e due separatamente. La ragione sarebbe una con-causa della fede. È l’atteggiamento della teologia classica.

Secondo l’apologetica classica, con la ragione si può dimostrare la fede. Ma le cinque vie di San Tommaso non sono autonome; si trovano all’interno del trattato su Dio, cioè riguardo a Dio la ragione ha qualcosa da dire. Alla fine di ogni via l’Aquinate scrive: omnes dicunt Deum. Lui non pensa che si possa credere in Dio senza la fede, non fa una filosofia prima. Secondo San Tommaso, dunque, non si può dimostrare Dio con la sola ragione, ma sì la possibilità di Dio.

1.2  Visione dialettica, fideista del rapporto fede-ragione

Il termine dialettica si usa qui in quanto contrapposizione al dialogo. Dio è così forte che non può dialogare con l’uomo. L’esponente paradigmatico di questa corrente è soprattutto Karl Barth. L’importante per un luterano è quello che Dio fa. Quello che l’uomo fa non conta nulla; deve solo accogliere. Da qui il concetto di giustificazione: è soltanto Dio che salva; non ci entrano per nulla le opere dell’uomo.

Invece, la dottrina cattolica dice che ci vuole la collaborazione con la grazia di Dio: la fede senza le opere non salva (Gc 2, 17).

1.3  Visione sintetica del rapporto fede-ragione

Secondo questa visione, il primato ce l’ha il dono di Dio. Quasi tutti i teologi cattolici sono passati dalla visione analitica a questa sintetica. Il dono di Dio è la causa della fede; la ragione ne è soltanto la condizione di possibilità. Non è una visione 1+1=2. Piuttosto corrisponde al senso della parabola del seminatore: se il seme non trova un terreno preparato non germina.

Si dice sintetica non perché sia la sintesi fra due elementi (le due correnti sopraccitate), ma perché è la sintesi di tutta la realtà, è la visione globale che racchiude tutta la realtà umana.

Non si tratta, dunque, di due piani staccati: fede e ragione, ma interconnessi. Con la fede, la ragione vede di più, viene potenziata. Il dono di Dio è illuminante. C’è un ruolo epistemologico illuminativo della fede: l’amore è più amore, l’amicizia è più amicizia. Ma anche il peccato è più profondo anche. Si può stabilire un’analogia con la unione ipostatica delle due nature, umana e divina, in Gesù Cristo: l’umanità di Gesù è nella sua pienezza perché ha il Verbo di Dio sostanzialmente unito ad essa; il primato però ce l’ha il Verbo di Dio.

2. ELEMENTI DELL’ATTO DI FEDE

Vogliamo qui analizzare l’atto di fede, l’atto di credere, come in un laboratorio. Possiamo dire che esso ha due elementi fondamentali:

2.1  L’atto di fede come dono di Dio

Il dono di Dio ha due funzioni, «gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito» (DV 5):

2.1.1  La fede come illuminazione

Il dono di Dio ha una funzione illuminativa. Il Mistero Pasquale è il grande segno del cristianesimo. Lumen Christi: Il Risorto è presente tra di noi come Luce che illumina il senso ultimo della vita; la sua ultima parola non è stata la morte, la croce, ma la luce, la risurrezione. Questo aspetto si può rilevare in diversi brani dell’Antico come del Nuovo Testamento (soprattutto Ef 1,18). Anche San Tommaso si riferisce ad esso quando dice: «Per lumen fidei vident esse credenda» (II-IIae, q. 1 a. 5 ad 1) e quando si riferisce alla «oculata fides» (III, q. 55 a. 2 ad 1).

2.1.2  La fede come orientamento vissuto, personale e comunicativo (DV 5.8; LG 12)

Il dono di Dio non illumina soltanto dall’esterno, ma incide sul cuore, sul centro della persona e, quindi, illumina il senso di tutta la vita della persona. Chi non ha fede può magari pensare che la dottrina cattolica è una regola morale buona, interessante, ma non si sentirà spinto a regolare la sua intera vita da essa.

2.2  L’atto di fede come atto umano

Per la fede, «l’uomo gli si abbandona [a Dio] tutt’intero e liberamente» (DV 5).

2.2.1  Praeambula fidei

Sono i “preamboli della fede”. È la “via preparatoria della fede” (FR 67). Si tratta di un’espressione coniata dalla Scolastica che vuol dire che la ragione è un preambolo per la fede. Nella teologia classica, i praeambula fidei avevano un ruolo fondamentale, forte; erano chiari, si sapeva con chiarezza quali erano. Nella società postmoderna tutto è più sfumato e, quindi, non è chiaro quali siano i preamboli della fede. Né la filosofia classica né l’Illuminismo erano relativisti come lo è la cultura postmoderna. La postmodernità è la prima volta nella Storia che non si sa bene come si debba fare questo dialogo tra fede e ragione. quaranta anni fa era chiaro che bisognava studiare Kant e Marx per capire la società di allora. C’è stata molta discussione su questo concetto perché può essere capito in due sensi:

– come preambula logica (non crono-logica, temporale);

– come condizione di possibilità. È questa l’interpretazione attuale nella teologia fondamentale. Sono le condizioni di possibilità per essere credente. La parabola del seminatore, come accennato prima, illustra in modo adeguato questo concetto: la terra deve essere preparata perché il seme possa fruttificare. La ragione è il soggetto della fede. Dio ha voluto il dono della libertà umana, anche se essa possa essere condizionata da tanti fattori. Non si tratta, dunque, di condizioni di possibilità soltanto teoretiche ma anche pratiche. Nella pastorale, quello che si fa è creare condizioni di possibilità per la fede.

Il n. 67 dell’enciclica Fides et Ratio parla di quattro condizioni di possibilità della fede:

a) La conoscenza naturale di Dio

Se uno non ha una apertura verso la possibilità che ci sia Dio, non crederà mai.

b) La possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel riconoscimento della sua credibilità

Se non si ammette la possibilità che Dio intervenga nella Storia e abbia lasciato delle tracce concrete, non si può aver fede.

c) La capacità del linguaggio umano di parlare in forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana

Un positivista del linguaggio dirà che il linguaggio non può esprimere Dio. È vero che Dio non si può concettualizzare tutto. Se non ci fosse la analogia non potremmo fare teologia; noi parliamo di Dio con un linguaggio analogico, comparativo. Questo argomento ha a che fare con temi scottanti oggi come oggi: semiologia, semiotica moderna.

d) La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte

È la ricerca sul senso della vita. Se uno non si domanda sul senso della vita vedrà la fede come una semplice regola morale.

2.2.2  Ratio fidei

Cosa fa un credente quando un non credente gli chiede ragione della sua fede? Solvere rationes, confutare le ragioni: non bisogna dimostrare la fede ma mostrarla, cioè smontare le ragioni dell’altro, mostrare che non sono ragioni consistenti. San Tommaso non farebbe mai quello che ha fatto l’Illuminismo: separare fede e ragione, neanche avrebbe mai usato la figura della Fides et Ratio (le due ali), perché non si tratta di due ali autonome l’una dall’altra in senso stretto. La ragione è il soggetto della fede, ma è un soggetto che può chiudersi alla fede. Quindi, quando la Fides et Ratio parla di autonomia bisogna capire bene il termine.

2.2.3  Apertura o comunicabilità della ragione

La ragione aperta è la struttura interiore – più che previa o posteriore – dell’atto di credere. La fede cioè presuppone una ragione aperta. Ci sono diverse denominazioni:

– la ragione vista come ragione vitale (Ortega y Gasset / Gómez Caffarena). Include l’intuizione, l’amore, tutta la persona, tutta la vita. È per ragione vitale che si fanno le scelte importanti nella vita.

– la ragione vista come ordine degli affetti (Sequeri). Nel suo trattato di fede, dice che la ragione da un ordine a tutto quel complesso vitale.

– la ragione vista come ragione comunicativa (Habermas). Lui sottolinea che la dimensione comunicativa non può essere dimenticata, poiché la persona umana non è soltanto azione e sfera privata. È anche importante l’amore, l’amicizia, l’etica, il volontariato, ecc.

– la ragione come ragione sapienziale (FR 81, quindi, Giovanni Paolo II). È una ragione sensitiva. Ad esempio, i Padri hanno una teologia sapienziale, molto legata nel loro caso, alla liturgia, e molto legata al cuore.

– la ragione come ragione ampia (J. Ratzinger). Doppia domanda: da dove? da dove vengo? (Origine); verso dove? verso dove vado? (Termine). In fondo, si tratta della domanda di senso.

2.3  Verso una sintesi

Ci sono diverse formulazioni che cercano di articolare il rapporto tra fede e ragione:

2.3.1  Punto di partenza:  “la interazione tra fede e ragione” (FR cap. VI)

Circolarità tra fede e ragione. Intuitivamente si potrebbe capire così: quando si muove l’una, si muove anche l’altra. Ma la fede illumina la ragione e ne da il tesoro, ci insegna ad essere veramente uomini.

2.3.2  “L’argomentazione cumulativa” (Illative sense) di J. H. Newman

Newman aveva in mente rispondere ai positivisti. L’assenso nella vita umana non è soltanto nozionale (2+2=4) ma reale: le grandi scelte della vita, ecc. Quindi, la fede non è primariamente un assenso nozionale ma soprattutto reale, vitale.

L’assenso reale si fa attraverso un senso illativo, una argomentazione cumulativa. Bisogna collegare gli indizi. La ragione umana non è un qualcosa di meramente nozionale ma ha una componente intuitiva. Si tratta di un positivismo aperto. Altri nominativi importanti su questa scia sono A. Dulles, H.J. Pottmeyer e W. Kasper.

2.3.3  “Les yeux de la foi” (P. Rousselot)

Essi «rendono possibile la conoscenza della credibilità». La fede cioè ha anche i suoi occhi. La grazia non toglie la natura ma le da la sua forza.

Questa visione ha suscitato una grande polemica all’inizio del s. XX perché sembrava protestante, troppo fideista. H.U. v. Balthasar si sentiva discepolo di Rousselot ed è stato colui che ha contribuito di più alla riabilitazione del suo maestro. Fisichella si trova anche su questa scia.

2.3.4  Teologia trascendentale

«L’affinità tra la rivelazione e la realizzazione piena della vita». In questa scia si trovano: K. Rahner, H. Fries, B. Welte ed altri. Si tratta di mettere in relazione trascendentale il dono di Dio e la ragione umana.

Per Rahner, in concreto, la ragione umana si sintetizza in tre domande: vale la pena amare? vale la pena morire? vale la pena sperare in un futuro?

2.3.5  Personalismo

«L’opzione fondamentale dell’atto di credere». In questa corrente si trovano: J. Alfaro, M. Seckler ed altri. La fede non è una cosa in più ma è qualcosa che tocca il nocciolo della persona umana. Tutto si fa intorno a questa opzione fondamentale.

2.3.6  Conclusione

«La convergenza di senso» (STh III, q. 55, a. 6 ad 1). ;Newman, K.Rahner, H.Verweyen, H.Wagner, Swinburne,SPN).

3. LA CREDIBILITÀ COME “PROPOSTA DI SENSO” TEOLOGICA, STORICA E ANTROPOLOGICA

La credibilità, come proposta sensata portatrice di senso, pieno e definitivo, parte dalle due istanze basilari dalle quali trae la sua ragion di essere: l’istanza teologica – dalla fede – e la istanza filosofica – dalla ragione – che si articola attorno alla sua duplice dimensione: quella storica e quella antropologica (FR  14).

3.1  Proposta di senso teologica

Il senso teologico pieno di un’affermazione di fede concreta parte sempre da una prospettiva di fede, che, a sua volta, parte dalla comprensione teologica della rivelazione come «vera stella di orientamento per l’uomo» (FR 15). L’auditus fidei sarà il momento fondante teologico-dogmatico della credibilità.

3.2  Proposta di senso storica

Il senso storico delle affermazioni di fede affonda le sue radici nella storia. Così, si deve tener presente che la storia include una triplice forma: quella originaria dei fatti, la forma riflessiva – o narrazione – e la forma filosofica.

3.3  Proposta di senso antropologica

Il senso antropologico di un’affermazione di fede è in diretto riferimento alla persona umana concreta. È l’apporto più decisivo del rinnovamento della teologia fondamentale contemporanea: la persona umana come essere storico radicato nell’immanenza della sua storicità; come essere indigente, bisognoso di senso definitivo; come essere alla ricerca del dono di una parola e di un senso ultimo.

4. Conclusione

La credibilità ha dunque il compito di mostrare la rivelazione come una “proposta sensata” nella sua triplice dimensione: teologica; filosofico-storica; e filosofico-antropologica. Sarà così che si potrà affermare che «sono degne di fede (credibilia) le tue testimonianze, Signore», giacché in verità «è credibile/affidabile il Dio che ci ha chiamato a vivere nella comunione con il suo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore» (1Cor 1,9).

 

HERNÁNDEZ, José Francisco. Elaborato sulla Tesi nº 4: L’atto di credere come “synthesis fidei” – Salvador Pié-Ninot. Pontificia Università Gregoriana Roma, 22 Maggio 2008.