Essência do culto cristão

 

cardeal-ratzingerRATZINGER, Joseph. Introdução ao Cristianismo. São Paulo: Herder, 1970. p. 136.

 

 

 

A essência do culto cristão não se encontra no sacrifício das coisas, nem em alguma substituição qualquer, como se lê repetidamente nas teorias sobre a Missa, a partir do século XVI – segundo as quais, deste modo, seria reconhecido o supremo domínio de Deus sobre tudo. Todas estas considerações são ultrapassadas pelo acontecimento de Cristo e por sua interpretação bíblica. O culto cristão consiste no absoluto do amor, tal como podia oferecê-lo somente alguém no qual o amor divino se tornou amor humano; consiste na forma nova da representação incluída neste amor, a saber, que ele ocupou o nosso lugar e nós nos deixamos tomar por ele. Portanto, significa que nos cumpre deixar de lado nossas tentativas de justificação que, no fundo, não passam de desculpas, colocando-nos uns contra os outros – como a tentativa de Adão em desculpar-se foi uma escusa e um jogar a culpa sobre o outro, finalmente uma tentativa de acusar o próprio Deus: “A mulher que pusestes ao meu lado, ela foi quem me deu daquela árvore, e eu comi” (Gen  3,12). Este culto exige que, ao invés de opor afirmação destrutiva, da autojustificação, aceitemos a dádiva do amor de Jesus Cristo por nós, que nos deixemos unir nele, tornando-nos adoradores com ele e nele.

L’atto di credere come “synthesis fidei”

Pe. José Francisco Hernández, EP

1. RAPPORTO FEDE-RAGIONEdoutores-lei

Quale è il rapporto fra il dono di Dio e la ragione umana? La ragione non può essere causa della fede, altrimenti la fede non sarebbe un dono gratuito. La fede non può essere una conclusione tipo 2+2=4. Ci sono tre orientamenti diversi per spiegare questo rapporto:

1.1  Visione analitica, razionalista del rapporto fede-ragione

Questa concezione analizza tutte e due separatamente. La ragione sarebbe una con-causa della fede. È l’atteggiamento della teologia classica.

Secondo l’apologetica classica, con la ragione si può dimostrare la fede. Ma le cinque vie di San Tommaso non sono autonome; si trovano all’interno del trattato su Dio, cioè riguardo a Dio la ragione ha qualcosa da dire. Alla fine di ogni via l’Aquinate scrive: omnes dicunt Deum. Lui non pensa che si possa credere in Dio senza la fede, non fa una filosofia prima. Secondo San Tommaso, dunque, non si può dimostrare Dio con la sola ragione, ma sì la possibilità di Dio.

1.2  Visione dialettica, fideista del rapporto fede-ragione

Il termine dialettica si usa qui in quanto contrapposizione al dialogo. Dio è così forte che non può dialogare con l’uomo. L’esponente paradigmatico di questa corrente è soprattutto Karl Barth. L’importante per un luterano è quello che Dio fa. Quello che l’uomo fa non conta nulla; deve solo accogliere. Da qui il concetto di giustificazione: è soltanto Dio che salva; non ci entrano per nulla le opere dell’uomo.

Invece, la dottrina cattolica dice che ci vuole la collaborazione con la grazia di Dio: la fede senza le opere non salva (Gc 2, 17).

1.3  Visione sintetica del rapporto fede-ragione

Secondo questa visione, il primato ce l’ha il dono di Dio. Quasi tutti i teologi cattolici sono passati dalla visione analitica a questa sintetica. Il dono di Dio è la causa della fede; la ragione ne è soltanto la condizione di possibilità. Non è una visione 1+1=2. Piuttosto corrisponde al senso della parabola del seminatore: se il seme non trova un terreno preparato non germina.

Si dice sintetica non perché sia la sintesi fra due elementi (le due correnti sopraccitate), ma perché è la sintesi di tutta la realtà, è la visione globale che racchiude tutta la realtà umana.

Non si tratta, dunque, di due piani staccati: fede e ragione, ma interconnessi. Con la fede, la ragione vede di più, viene potenziata. Il dono di Dio è illuminante. C’è un ruolo epistemologico illuminativo della fede: l’amore è più amore, l’amicizia è più amicizia. Ma anche il peccato è più profondo anche. Si può stabilire un’analogia con la unione ipostatica delle due nature, umana e divina, in Gesù Cristo: l’umanità di Gesù è nella sua pienezza perché ha il Verbo di Dio sostanzialmente unito ad essa; il primato però ce l’ha il Verbo di Dio.

2. ELEMENTI DELL’ATTO DI FEDE

Vogliamo qui analizzare l’atto di fede, l’atto di credere, come in un laboratorio. Possiamo dire che esso ha due elementi fondamentali:

2.1  L’atto di fede come dono di Dio

Il dono di Dio ha due funzioni, «gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito» (DV 5):

2.1.1  La fede come illuminazione

Il dono di Dio ha una funzione illuminativa. Il Mistero Pasquale è il grande segno del cristianesimo. Lumen Christi: Il Risorto è presente tra di noi come Luce che illumina il senso ultimo della vita; la sua ultima parola non è stata la morte, la croce, ma la luce, la risurrezione. Questo aspetto si può rilevare in diversi brani dell’Antico come del Nuovo Testamento (soprattutto Ef 1,18). Anche San Tommaso si riferisce ad esso quando dice: «Per lumen fidei vident esse credenda» (II-IIae, q. 1 a. 5 ad 1) e quando si riferisce alla «oculata fides» (III, q. 55 a. 2 ad 1).

2.1.2  La fede come orientamento vissuto, personale e comunicativo (DV 5.8; LG 12)

Il dono di Dio non illumina soltanto dall’esterno, ma incide sul cuore, sul centro della persona e, quindi, illumina il senso di tutta la vita della persona. Chi non ha fede può magari pensare che la dottrina cattolica è una regola morale buona, interessante, ma non si sentirà spinto a regolare la sua intera vita da essa.

2.2  L’atto di fede come atto umano

Per la fede, «l’uomo gli si abbandona [a Dio] tutt’intero e liberamente» (DV 5).

2.2.1  Praeambula fidei

Sono i “preamboli della fede”. È la “via preparatoria della fede” (FR 67). Si tratta di un’espressione coniata dalla Scolastica che vuol dire che la ragione è un preambolo per la fede. Nella teologia classica, i praeambula fidei avevano un ruolo fondamentale, forte; erano chiari, si sapeva con chiarezza quali erano. Nella società postmoderna tutto è più sfumato e, quindi, non è chiaro quali siano i preamboli della fede. Né la filosofia classica né l’Illuminismo erano relativisti come lo è la cultura postmoderna. La postmodernità è la prima volta nella Storia che non si sa bene come si debba fare questo dialogo tra fede e ragione. quaranta anni fa era chiaro che bisognava studiare Kant e Marx per capire la società di allora. C’è stata molta discussione su questo concetto perché può essere capito in due sensi:

– come preambula logica (non crono-logica, temporale);

– come condizione di possibilità. È questa l’interpretazione attuale nella teologia fondamentale. Sono le condizioni di possibilità per essere credente. La parabola del seminatore, come accennato prima, illustra in modo adeguato questo concetto: la terra deve essere preparata perché il seme possa fruttificare. La ragione è il soggetto della fede. Dio ha voluto il dono della libertà umana, anche se essa possa essere condizionata da tanti fattori. Non si tratta, dunque, di condizioni di possibilità soltanto teoretiche ma anche pratiche. Nella pastorale, quello che si fa è creare condizioni di possibilità per la fede.

Il n. 67 dell’enciclica Fides et Ratio parla di quattro condizioni di possibilità della fede:

a) La conoscenza naturale di Dio

Se uno non ha una apertura verso la possibilità che ci sia Dio, non crederà mai.

b) La possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel riconoscimento della sua credibilità

Se non si ammette la possibilità che Dio intervenga nella Storia e abbia lasciato delle tracce concrete, non si può aver fede.

c) La capacità del linguaggio umano di parlare in forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana

Un positivista del linguaggio dirà che il linguaggio non può esprimere Dio. È vero che Dio non si può concettualizzare tutto. Se non ci fosse la analogia non potremmo fare teologia; noi parliamo di Dio con un linguaggio analogico, comparativo. Questo argomento ha a che fare con temi scottanti oggi come oggi: semiologia, semiotica moderna.

d) La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte

È la ricerca sul senso della vita. Se uno non si domanda sul senso della vita vedrà la fede come una semplice regola morale.

2.2.2  Ratio fidei

Cosa fa un credente quando un non credente gli chiede ragione della sua fede? Solvere rationes, confutare le ragioni: non bisogna dimostrare la fede ma mostrarla, cioè smontare le ragioni dell’altro, mostrare che non sono ragioni consistenti. San Tommaso non farebbe mai quello che ha fatto l’Illuminismo: separare fede e ragione, neanche avrebbe mai usato la figura della Fides et Ratio (le due ali), perché non si tratta di due ali autonome l’una dall’altra in senso stretto. La ragione è il soggetto della fede, ma è un soggetto che può chiudersi alla fede. Quindi, quando la Fides et Ratio parla di autonomia bisogna capire bene il termine.

2.2.3  Apertura o comunicabilità della ragione

La ragione aperta è la struttura interiore – più che previa o posteriore – dell’atto di credere. La fede cioè presuppone una ragione aperta. Ci sono diverse denominazioni:

– la ragione vista come ragione vitale (Ortega y Gasset / Gómez Caffarena). Include l’intuizione, l’amore, tutta la persona, tutta la vita. È per ragione vitale che si fanno le scelte importanti nella vita.

– la ragione vista come ordine degli affetti (Sequeri). Nel suo trattato di fede, dice che la ragione da un ordine a tutto quel complesso vitale.

– la ragione vista come ragione comunicativa (Habermas). Lui sottolinea che la dimensione comunicativa non può essere dimenticata, poiché la persona umana non è soltanto azione e sfera privata. È anche importante l’amore, l’amicizia, l’etica, il volontariato, ecc.

– la ragione come ragione sapienziale (FR 81, quindi, Giovanni Paolo II). È una ragione sensitiva. Ad esempio, i Padri hanno una teologia sapienziale, molto legata nel loro caso, alla liturgia, e molto legata al cuore.

– la ragione come ragione ampia (J. Ratzinger). Doppia domanda: da dove? da dove vengo? (Origine); verso dove? verso dove vado? (Termine). In fondo, si tratta della domanda di senso.

2.3  Verso una sintesi

Ci sono diverse formulazioni che cercano di articolare il rapporto tra fede e ragione:

2.3.1  Punto di partenza:  “la interazione tra fede e ragione” (FR cap. VI)

Circolarità tra fede e ragione. Intuitivamente si potrebbe capire così: quando si muove l’una, si muove anche l’altra. Ma la fede illumina la ragione e ne da il tesoro, ci insegna ad essere veramente uomini.

2.3.2  “L’argomentazione cumulativa” (Illative sense) di J. H. Newman

Newman aveva in mente rispondere ai positivisti. L’assenso nella vita umana non è soltanto nozionale (2+2=4) ma reale: le grandi scelte della vita, ecc. Quindi, la fede non è primariamente un assenso nozionale ma soprattutto reale, vitale.

L’assenso reale si fa attraverso un senso illativo, una argomentazione cumulativa. Bisogna collegare gli indizi. La ragione umana non è un qualcosa di meramente nozionale ma ha una componente intuitiva. Si tratta di un positivismo aperto. Altri nominativi importanti su questa scia sono A. Dulles, H.J. Pottmeyer e W. Kasper.

2.3.3  “Les yeux de la foi” (P. Rousselot)

Essi «rendono possibile la conoscenza della credibilità». La fede cioè ha anche i suoi occhi. La grazia non toglie la natura ma le da la sua forza.

Questa visione ha suscitato una grande polemica all’inizio del s. XX perché sembrava protestante, troppo fideista. H.U. v. Balthasar si sentiva discepolo di Rousselot ed è stato colui che ha contribuito di più alla riabilitazione del suo maestro. Fisichella si trova anche su questa scia.

2.3.4  Teologia trascendentale

«L’affinità tra la rivelazione e la realizzazione piena della vita». In questa scia si trovano: K. Rahner, H. Fries, B. Welte ed altri. Si tratta di mettere in relazione trascendentale il dono di Dio e la ragione umana.

Per Rahner, in concreto, la ragione umana si sintetizza in tre domande: vale la pena amare? vale la pena morire? vale la pena sperare in un futuro?

2.3.5  Personalismo

«L’opzione fondamentale dell’atto di credere». In questa corrente si trovano: J. Alfaro, M. Seckler ed altri. La fede non è una cosa in più ma è qualcosa che tocca il nocciolo della persona umana. Tutto si fa intorno a questa opzione fondamentale.

2.3.6  Conclusione

«La convergenza di senso» (STh III, q. 55, a. 6 ad 1). ;Newman, K.Rahner, H.Verweyen, H.Wagner, Swinburne,SPN).

3. LA CREDIBILITÀ COME “PROPOSTA DI SENSO” TEOLOGICA, STORICA E ANTROPOLOGICA

La credibilità, come proposta sensata portatrice di senso, pieno e definitivo, parte dalle due istanze basilari dalle quali trae la sua ragion di essere: l’istanza teologica – dalla fede – e la istanza filosofica – dalla ragione – che si articola attorno alla sua duplice dimensione: quella storica e quella antropologica (FR  14).

3.1  Proposta di senso teologica

Il senso teologico pieno di un’affermazione di fede concreta parte sempre da una prospettiva di fede, che, a sua volta, parte dalla comprensione teologica della rivelazione come «vera stella di orientamento per l’uomo» (FR 15). L’auditus fidei sarà il momento fondante teologico-dogmatico della credibilità.

3.2  Proposta di senso storica

Il senso storico delle affermazioni di fede affonda le sue radici nella storia. Così, si deve tener presente che la storia include una triplice forma: quella originaria dei fatti, la forma riflessiva – o narrazione – e la forma filosofica.

3.3  Proposta di senso antropologica

Il senso antropologico di un’affermazione di fede è in diretto riferimento alla persona umana concreta. È l’apporto più decisivo del rinnovamento della teologia fondamentale contemporanea: la persona umana come essere storico radicato nell’immanenza della sua storicità; come essere indigente, bisognoso di senso definitivo; come essere alla ricerca del dono di una parola e di un senso ultimo.

4. Conclusione

La credibilità ha dunque il compito di mostrare la rivelazione come una “proposta sensata” nella sua triplice dimensione: teologica; filosofico-storica; e filosofico-antropologica. Sarà così che si potrà affermare che «sono degne di fede (credibilia) le tue testimonianze, Signore», giacché in verità «è credibile/affidabile il Dio che ci ha chiamato a vivere nella comunione con il suo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore» (1Cor 1,9).

 

HERNÁNDEZ, José Francisco. Elaborato sulla Tesi nº 4: L’atto di credere come “synthesis fidei” – Salvador Pié-Ninot. Pontificia Università Gregoriana Roma, 22 Maggio 2008.

 

Desafios da Igreja no terceiro milênio da Era Cristã

bentoMons. João Clá Dias, EP

Um dos grandes desafios da Igreja no início deste terceiro milênio da Era Cristã é a recondução daqueles de seus filhos que deixaram de praticar os deveres religiosos e se desligaram da plena comunhão eclesial. É o que em linguagem corrente se denomina de “católicos à sua maneira”. No entanto, convém ressaltar que para atrair esse tipo de católicos seria mais eficaz apresentar a religião sob uma perspectiva inovadora, uma vez que os métodos e práticas convencionais, para eles, de certa forma se desgastaram, deixando de ter significado. O Pontifício Conselho para a Cultura, no já mencionado Documento Final (2006), oferece uma proposta para atrair os descrentes e os indiferentes, que podemos também aplicar frutuosamente aos católicos não praticantes: 

Devant les défis historiques, sociaux, culturels et religieux relevés dans les deux précédentes Assemblées plénières, quels aspects de la pastorale l’Église est-elle appelée à privilégier dans son dialogue apostolique avec les hommes et les femmes de notre temps, notamment les non-croyants et les indifférents? (…)Dans cette perspective, la Via pulchritudinis se présente comme un itinéraire privilégié pour rejoindre beaucoup de celles et ceux qui éprouvent de grandes difficultés à recevoir l’enseignement, en particulier moral, de l’Église.

Essa impostação de alma — de amor aos aspectos mais sublimes da ordem do Universo —, não se trata tão só de uma operação da razão natural, pela qual se busca entender o simbolismo das criaturas e discernir nelas um espelho das qualidades de Deus.

Com efeito, para adquirir uma penetrante e vasta visão da beleza do criado e sua relação com o Criador, não se pode deixar de considerar a ação do Espírito Santo nas almas, conduzindo-as pelas mais diversas vias. O exemplo da conversão do conhecido escritor francês Paul Claudel (1878-1955) ilustra bem o que se pretende afirmar. Foi durante o canto do Magnificat, na celebração de Vésperas na Catedral de Notre-Dame de Paris, que ele se converteu, deslumbrado com o esplendor e a beleza da liturgia.

A descrição desse momento, por suas próprias palavras, é mais eloqüente que qualquer explicação teórica:

C’est alors que se produisit l’événement qui domine toute ma vie. En un instant, mon cœur fut touché et je crus. Je crus, d’une telle force d’adhésion, d’un tel soulèvement de tout mon être, d’une conviction si puissante, d’une telle certitude ne laissant place à aucune espèce de doute que, depuis, tous les livres, tous les raisonnements, tous les hasards d’une vie agitée, n’ont pu ébranler ma foi, ni, à vrai dire, la toucher.[1]

Essa iluminação súbita do entendimento e afervoramento do coração, tal como se um “flash” se acendesse na alma, é uma das formas características de atuação do Espírito Santo. Trata-se de uma experiência de Deus, sem que Ele se faça perceptível aos sentidos externos, como explica Tanquerey, “S. Bernard l’appelle la connaissance savoureuse des choses divines[2]

DIAS, João Scognamiglio Clá. Considerações sobre a gênese e o desenvolvimento do movimento dos Arautos do Evangelho e seu enquadramento jurídico, 2008. Tese de Mestrado em Direito Canônico — Pontifício Instituto de Direito Canônico do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, 2008. p. 93-94.


[1][1] Cf. P. Claudel, Ma conversion, dans Contacts et circonstances, Gallimard, 1940, p. 11 sq ; repris dans Ecclesia, Lectures chrétiennes, Paris, No 1, avril 1949, p. 98-100.

[2][2] Cfr. TANQUEREY, A. Précis de Théologie Ascétique et Mystique, n.1348.

O Temporal e o Espiritual na Sociedade

bento-e-presidente            Diác. José Victorino de Andrade, EP 

 

 

            Seria um erro pensarmos que a esfera temporal e a espiritual se redundam numa só, sobretudo pelos diferentes domínios que envolvem o Estado e a Religião, conforme afirmou o Papa Bento XVI, na sua viagem à França:

 

Parece-me evidente que hoje a laicidade por si mesma não está em contradição com a fé. Aliás, diria que é um fruto da fé, porque a fé cristã desde o início era uma religião universal, portanto, não identificável com um Estado, uma religião presente em todos os Estados e diferente dos Estados. Para os cristãos foi sempre claro que a religião e a fé não estão na esfera política, mas colocam-se noutra esfera da vida humana… A política, o Estado não é uma religião mas uma realidade profana com uma missão específica.[1]

 

            Várias vezes ele se referiu à sã laicidade, quer na visita feita aos EUA quer na visita à França; E chegou mesmo a advertir, ainda que: “onde a política quer ser redenção, ela promete demasiado. Onde pretende fazer a obra de Deus, não se torna divina, mas demoníaca”.[2] Não quer isto dizer que o Estado não tenha um papel na sacralização da sociedade e que esse papel pertença exclusivamente à Igreja. “Ambas as realidades devem estar abertas uma à outra”.[3]

            De acordo com José Ferrater Mora,

 

Aristóteles foi o primeiro a afirmar que a sociedade organizada num Estado tem de proporcionar a cada um dos membros o necessário para o seu bem-estar e felicidade como cidadãos. […] Foi, contudo, S. Tomás que o esclareceu amplamente (SUMA TEOLÓGICA), ao afirmar que a sociedade humana como tal tem fins próprios que são “fins naturais”, que há que atender e realizar. Os fins espirituais e o bem supremo não são incompatíveis com o bem comum da sociedade como tal; pertencem a outra ordem. Há que estabelecer como se relacionam as duas ordens mas sem destruir uma delas.[4]

 

            Ora, cabe ao Estado a assistência aos fins naturais da sociedade humana, enquanto os fins sobrenaturais parecem pertencer a outra ordem. Porém, elas relacionam-se, não se devem repelir, pois possuem ambos um fim sacral, conforme esboçou Corrêa de Oliveira:

 

O fim da sociedade e do Estado é a vida virtuosa em comum. Ora, as virtudes que o homem é chamado a praticar são as virtudes cristãs, e destas a primeira é o amor a Deus. A sociedade e o Estado têm, pois, um fim sacral. Por certo é à Igreja que pertencem os meios próprios para promover a salvação das almas. Mas a sociedade e o Estado têm meios instrumentais para o mesmo fim, isto é, meios que, movidos por um agente mais alto, produzem efeito superior a si mesmos.[5]

           

            A Igreja, reconhecendo todas as instituições que de alguma forma a auxiliam e se ordenam ao mesmo fim, procura a harmonia e aceita de braços estendidos a cooperação, para bem das almas, conforme afirmou João Paulo II:

 

Ao desempenhar a própria missão, de ordem espiritual, e sempre desejosa de manter o maior respeito pelas necessárias e legítimas instituições de ordem temporal, a Igreja nunca deixa de apreciar e alegrar-se com tudo aquilo que favorece a vivência da verdade integral do homem; não pode não congratular-se com os esforços que se envidam para tutelar e defender os direitos e liberdades fundamentais de cada pessoa humana; e rejubila e agradece ao Senhor da vida e da história, quando planificações e programas – de caráter político, econômico, social e cultural – são inspirados no respeito e amor da dignidade do homem, em demanda da “civilização do amor”.[6]

 

            E se este entendimento por vezes não existiu, não foi por desdém da Santa Sé em trabalhar por soluções conjuntas, mas porque estariam envolvidas questões que custariam ao Catolicismo uma transigência que jamais poderia aceitar, por serem contrárias à sua missão sobrenatural ou aos seus princípios mais básicos.

 

 

VICTORINO DE ANDRADE, José. A Igreja e o Verdadeiro Progresso: Sacralização e Pleno Desenvolvimento no mundo contemporâneo. 17 f. Trabalho (Mestrado em Teologia Moral) – UPB, 2009. p. 7 e 8.
 

[1] Entrevista concedida pelo Santo Padre aos jornalistas durante o voo para a França, 12 de Setembro de 2008. Presente em http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2008/september/documents/ hf_ben-xvi_spe_20080912_francia-interview_po.html. Último acesso em 23/02/2009

[2] Ratzinger, Joseph. Fé, Verdade, Tolerância. Traduções UCEDITORA: Lisboa, 2007. P. 105-106

[3] Idem.

[4] FERRATER MORA, José. Dicionário de Filosofia. Tradução de António José MASSANO; Manuel PALMEIRIM. Lisboa: Publicações D. Quixote, 1978. p. 30-31.

[5] RCR, op. cit. 2. C

[6] Discurso do Papa João Paulo II aos Membros do Governo Português. 12 de Maio 1982

 

 

 

Os professores e o ensino: Aportes da Igreja

aulaDom J. B. Chautard. A ALMA DE TODO APOSTOLADO. São Paulo: Editora coleção, p. 90

 

O professor sem vida interior julga ter cumprido o dever, conservando‑se exclusivamente dentro das balizas de um programa de exame. Se tivesse vida interior, uma frase que lhe escapasse dos lábios e do coração, uma comoção que se lhe espelhasse no rosto, um gesto expressivo, que digo? só a maneira de fazer o sinal da cruz, de dizer uma oração antes ou depois de uma aula, embora fosse aula de matemática, poderiam exercer maior eficácia nos alunos que um sermão.

 

Sto. Agostinho De Magistro (Do Mestre) Cap. VIII

 Todo homem que aprecie as coisas pelo seu justo lado e valor, a um charlatão que dissesse: “Ensino para falar”, responderia: “Homem, e por que antes não falas para ensinar?” […] as palavras, pois, existem para que as usemos, e as usamos para ensinar. Logo, é melhor ensinar que falar, e, assim, é melhor o discurso que a palavra. Muito melhor que as palavras é, portanto, a doutrina.

 

 

DISCURSO DO PAPA BENTO XVI 13 dezembro 2007

[…] deve ser dedicada especial atenção às jovens gerações, mostrando-lhes que elas são a primeira riqueza de um país; a sua educação integral é uma necessidade primordial. De facto, não é suficiente uma formação técnica e científica para fazer deles homens e mulheres responsáveis na sua família e em todos os níveis da sociedade. Para esta finalidade, é preciso privilegiar uma educação nos valores humanos e morais, que permita que cada jovem tenha confiança em si próprio, confie no futuro, tenha a preocupação pelos seus irmãos e irmãs em humanidade e queira assumir o seu lugar no crescimento da nação, com um sentido cada vez mais profundo do próximo.

Validez y licitud en materia sacramentaria

       baptismo     Pe. Jorge Maria Storni, EP

 

            A la autoridad eclesiástica competente le corresponde establecer los requisitos para la validez y licitud, normas éstas que deben ser obedecidas por todos los fieles y en toda la Iglesia universal. En concreto la legislación del Código de Derecho Canónico rige exclusivamente para la Iglesia latina.

            Antes de entrar en la materia propia de cada uno de los Sacramentos, el Código legisla  principios generales.

            Una primera ley invalidante es la que dispone que nadie puede ser admitido a los demás sacramentos, sin haber recibido el bautismo.[1] Los sacramentos del bautismo, de la confirmación y de la santísima Eucaristía están tan íntimamente ligados entre sí, y todos son necesarios para la plena iniciación cristiana.[2] Para recibir lícitamente los sacramentos del orden sagrado es necesario haber recibido previamente el sacramento de la confirmación[3]. Para el matrimonio es requerido este sacramento, se no resultar con eso grave incomodo.[4]

            Así podríamos sintetizar en general, las condiciones de validez, siguiendo a Santo Tomás, prototipo entre los teólogos de la escolástica:

 

1.         Todo sacramento es eficaz a partir de la institución divina;

2.         Si en la administración de un sacramento no se observa todo cuanto fue             determinado por Jesucristo en la institución del mismo, la acción realizada carece de eficacia y, por lo tanto, no confiere la gracia;

3.         Tal sólo por especial y extraordinario privilegio divino concedido por Jesucristo, que no ligó su poder infinito a sus criaturas, los sacramentos, puede la Iglesia alterar el signo sacramental;

4.         En la administración de un sacramento no es lícito emplear una forma distinta a la determinada por Jesucristo, aunque sus términos sinónimos expresen el mismo sentido conceptual de aquella.[5]

 

            El citado autor señala que en la concepción de Santo Tomás, Nuestro Señor Jesucristo al  instituir los sacramentos determinó de manera explícita la materia y la forma de cada uno de ellos, y que a partir de la institución divina, el efecto causal de la gracia queda vinculado a la estructura material del signo sacramental determinado en concreto en el momento de la institución. Siguiendo el principio aristotélico según el cual la forma da el ser a la cosa, resulta lógico concluir que ha de ser Jesucristo quien determine la forma de cada sacramento, y todavía más lógico negar que nadie, salva la explícita y manifiesta voluntad divina pueda alterarla.

            Según el mismo autor, Lutero se equivocó al darle a estos principios de la escolática consecuencia de una radicalidad que no encuentran fundamento en la Sagrada Escritura. Cuando en ésta no encuentra la especificación del rito, Lutero niega que se trate de un auténtico sacramento. A otras consecuencias muy distintas hubiese llegado de haber tenido presente el comportamiento pastoral seguido por los Santos Padres.[6]    

STORNI, Jorge. La misión de santificar de la Iglesia Católica y el sacramento de la reconciliación.  Mestrado em Direito Canônico — Pontifício Instituto de Direito Canônico do Rio de Janeiro, 2009. p. 7-9.
 




[1] Can. 842§1

[2] Cf. Can. 842§2

[3] Cf. Can. 1033

[4] Cf. Can. 1065§1

[5] Cf. Arnau Ramón, Tratado General de los Sacramentos, BAC, Madrid, 2003. Pág. 137

[6] Cf. Op. cit. Pág. 138

As associações privadas de fiéis

Mons. João Clá Dias, EPassociacao

O Código atual traz a auspiciosa novidade das associações privadas de fiéis. Os cânones 298 a 329 tratam das associações de fiéis, dividindo os textos legislativos em quatro capítulos. No primeiro, expõe as “normas comuns” (cân. 298-311); no segundo, prescreve normas sobre associações públicas de fiéis (cân. 312-320); o terceiro (cân. 321-326) trata das associações privadas de fiéis; por fim, no quarto (cân. 327-329), introduz algumas “normas especiais para as associações de leigos”.

As associações de fiéis — sejam elas integradas por clérigos e leigos, ou só por clérigos, ou só por leigos — são distintas dos Institutos de Vida Consagrada e das Sociedades de Vida Apostólica. Sua finalidade é, mediante o esforço em conjunto de seus membros, fomentar uma vida mais perfeita, promover o culto público, ensinar a doutrina cristã, além de outras obras de apostolado, isto é, iniciativas de evangelização, exercício de obras de piedade e caridade, e animação da ordem temporal com o espírito cristão (cf. cân. 298). As associações privadas não podem, obviamente, incluir entre suas finalidades o exercício de atividades que, por sua natureza, são exclusivas da autoridade eclesiástica (cf. cân. 301). Essa restrição, porém, não empana sua natureza eclesial.[1]

O cânone 215 garante a todos os fiéis o direito de fundar e dirigir associações. O cânone 299, § 1, reitera esse direito, especificando: “Por acordo privado, os fiéis têm o direito de constituir associações, para obtenção dos fins mencionados no cân. 298, § 1, salva a prescrição do cân. 301, § 1”. E acrescenta no § 2: “Essas associações, mesmo se louvadas ou recomendadas pela autoridade eclesiástica, denominam-se privadas”. E o cânone 321 garante aos fiéis o direito de dirigir e governar as associações privadas, nos termos de seus estatutos.

Em seu Dicionário de Direito Canônico, Salvador (1997, p. 65) designa as finalidades das associações como sendo “as mesmas da missão de Cristo e da Igreja”, da qual todo fiel participa em virtude do Batismo. Têm elas, portanto, fins religiosos.

Chiapetta (1994, p. 67) corrobora essa opinião, afirmando que do cân. 298, § 1 resulta claramente que as associações de fiéis “tendem a fins religiosos, correspondentes ou conexos com a missão da Igreja”. E acrescenta: “As associações cujos objetivos são profanos e temporais (econômicos, sindicais, políticos, profissionais, culturais etc.) não se enquadram nesse dispositivo e, como tais, são estranhas ao ordenamento canônico. Delas se ocupa a legislação civil”.

Em razão do ato fundacional algumas distinções e características se apresentam. Assim, dependendo de quem promova e efetive a fundação, a associação, esta será pública, se foi erigida por a autoridade eclesiástica competente, e privada, se por iniciativa dos fiéis.

Ainda com relação à iniciativa fundacional, cabe destacar que, segundo o cânone 301, § 1, somente a “autoridade eclesiástica competente” pode erigir associações que tenham por objetivo promover o culto público, ensinar a doutrina cristã em nome da Igreja ou alguma outra finalidade cuja obtenção esteja reservada, por sua natureza, à autoridade eclesiástica.

Outro tipo de associação é o caracterizado pelo cânone 302, o qual denomina “clericais” aquelas que satisfazem três condições: “São dirigidas por clérigos, assumem o exercício de ordem sagrada e são reconhecidas como tais pela autoridade competente”. Segundo Ferrer Ortiz (1991, p. 210), essas associações são sempre públicas e o termo “clerical” refere-se não só aos clérigos que as dirigem e ao fato de o ato constitutivo emanar da autoridade eclesiástica, mas também “a uma modalidade de exercício do ministério sagrado por seus membros”.[2]

Ghirlanda (2007, p. 269) chega a uma definição sintética de associação privada nos seguintes termos:

Associação privada é a que, surgida por iniciativa dos fiéis, leigos, clérigos ou religiosos, governada por eles segundo os estatutos próprios, estando sempre em relação com a autoridade eclesiástica que pode também erigi-la em pessoa jurídica privada, se propõe finalidades religiosas ou caritativas, exceto aquelas cuja obtenção é reservada somente à autoridade eclesiástica. A natureza privada da associação não diminui de nenhum modo sua eclesialidade.

O cânone 304 prescreve que todas as associações de fiéis — públicas ou privadas — precisam ter seus estatutos nos quais se determinem sua finalidade, sede, governo, regras para admissão de sócios etc. Os estatutos das associações privadas devem ter pelo menos o reconhecimento, recognitio, da autoridade eclesiástica.

Sem embargo, autores como Chiapetta entendem como legítima a existência de entidades privadas com fins religiosos, sem o reconhecimento dos estatutos. Navarro (2002, p. 431-432) opina no mesmo sentido, mencionando diversos doutrinadores, e afirma ser essa a posição adotada por “algumas Conferências Episcopais”. Entre estas, a Conferência Episcopal Italiana e a Francesa, as quais tratam do assunto em documentos por ele colecionados.

Não só isso: segundo ele, as referidas Conferências Episcopais tomam em consideração até associações que não têm estatutos, ou nem cheguem a ter propriamente estrutura e organização, mas cuja existência seria legítima, em decorrência dos direitos de associação e de reunião.

Consignemos também que as associações privadas podem possuir ou não personalidade jurídica na Igreja. Esta se adquire por um decreto formal da autoridade eclesiástica competente, à qual compete aprovar previamente os estatutos. Em síntese, pode-se dizer que existem três espécies de associações privadas distintas na atual legislação canônica:

– Associações de fato, baseadas exclusivamente na livre vontade dos seus componentes e sem qualquer reconhecimento, aprovação ou ereção por parte da autoridade eclesiástica.

– Associações com estatutos apenas reconhecidos, isto é, sem um decreto formal de aprovação.

– Associações com personalidade jurídica e estatutos aprovados, por meio de decreto formal da autoridade competente.

No que se refere aos efeitos do reconhecimento, só podem ser sujeitos de obrigações e de direitos as associações dotadas de personalidade jurídica (cf. cân. 310).

CLÁ DIAS, João. Os novos movimentos: Quando espírito e jurisprudência se encontram…

in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho. n. 6, jan-mar 2009. p. 24-26.


[1] Fuentes (2002, p. 514) trata de uma delicada distinção entre as associações civis, que tendam a fins “que afetam mais ou menos diretamente à Igreja”, e as associações eclesiais. Para não alongar demasiadamente o presente estudo e desviar o foco que são propriamente as associações privadas de fiéis, deixamos de tratar do interessante assunto aqui e recomendamos a quem nele deseje se aprofundar que consulte o próprio texto de Fuentes.

[2] Diz o autor: “[O Código de Direito Canônico] denomina clericais àquelas associações de fiéis que estão sob a direção de clérigos, fazem seu o exercício da ordem sagrada e são reconhecidas como tais pela autoridade competente (cân. 302). Emprega o termo clerical em sentido técnico-jurídico, fazendo referência não só a quem dirige a associação e ao ato constitutivo da mesma pela autoridade eclesiástica — que lhe confere o caráter de pública — senão também a uma modalidade no exercício do ministério sagrado por parte de seus membros. Por esta razão, uma associação formada exclusivamente por clérigos e destinada a fomentar entre seus sócios uma forma concreta de espiritualidade sacerdotal, no exercício do ministério e sob a dependência do próprio Ordinário, não terá a condição de clerical, será uma associação comum de fiéis e poderá ser tanto pública como privada (Gutiérrez)” (FERRER ORTIZ, 1991, p. 210).

Aportes para o discernimento de um autêntico progresso: Da Populorum Progressio à Caritas in Veritate

Diác. José de Andrade, EP

 

 

relo“Hoje o mundo está cheio de convites ao progresso. Ninguém quer ser ‘não progressista’. Trata-se, todavia, de saber em que consiste o verdadeiro progresso”.[1] De acordo com Corrêa de Oliveira, este resume-se “no reto aproveitamento das forças da natureza, segundo a Lei de Deus e a serviço do homem”. Porém, “nem é o progresso material de um povo o elemento capital do progresso cristãmente entendido.” Mas, sobretudo, “no pleno desenvolvimento de todas as suas potências de alma, e na ascensão dos homens rumo à perfeição moral”.[2]

            Conforme o filósofo espanhol contemporâneo Ferrater Mora, o progresso pode considerar-se como um processo ou evolução, porém, onde se incorporam os valores.[3] Estes são fundamentais para um saudável e sustentável desenvolvimento, sem o qual, corre-se o risco de tudo desmoronar, pois não estaria construído sobre solo firme. E que solo mais firme haveria do que a “rocha de Pedro”? De facto, ao longo da história, a Igreja preocupou-se com um pleno desenvolvimento, repleto de valores, servindo-se para isso de uma atenta análise do decorrer dos tempos, munida das escrituras, a fim de servir-se da Palavra de Deus que interpela os homens de todos os tempos.

 

Fundada para estabelecer já neste mundo o reino do céu e não para conquistar um poder terrestre, a Igreja afirma claramente que os dois domínios são distintos, como são soberanos os dois poderes, eclesiástico e civil, cada um na sua ordem. Porém, vivendo na história, deve estar atenta aos sinais dos tempos e interpretá-los à luz do Evangelho. Comungando nas melhores aspirações dos homens e sofrendo de os ver insatisfeitos, deseja ajudá-los a alcançar o pleno desenvolvimento e, por isso, propõe-lhes o que possui como próprio: uma visão global do homem e da humanidade.[4]

 

            Uma superficial consideração do mundo de hoje leva a crer que a Igreja é contra o progresso, tal seria, pois, enquanto tal e na verdadeira acepção da palavra, é uma coisa boa. A este respeito, escreveu Paulo VI em seu último livro, ainda enquanto Cardeal Montini, em 1963:

 

A cristandade não é um obstáculo ao progresso moderno porque não o considera apenas nos seus aspetos técnicos e econômicos, mas no total de seu desenvolvimento. Os bens temporais poderão certamente ajudar o completo desenvolvimento do homem, mas eles não constituem o ideal da perfeição humana ou a essência do progresso social.[5]

 

            O problema com o aparente progresso, este sim, criticado pela Igreja, está no fato de ter vindo acompanhado de uma filosofia de vida que parecia dispensar Deus e confiar na mera técnica, ou no próprio homem, tal como advertiu o então cardeal Ratzinger:

 

Não é a expansão em si das possibilidades técnicas que é má, mas a arrogância iluminista que, em muitos casos, esmagou estruturas desenvolvidas e calcou as almas de homens cujas tradições religiosas e éticas foram postas de parte de forma displicente. O desenraizamento das almas e a destruição de estruturas comunitárias que então ocorreram, são certamente o principal motivo pelo qual a ajuda ao desenvolvimento apenas muito raramente tenha conduzido a resultados positivos.[6]

 

            Thomas S. Kuhn, chegou mesmo a colocar o dedo na ferida e a levantar o problema para onde caminhava a ciência em meados do séc. XX, pois, seu processo parecia partir de estágios primitivos e aparentava não levar a pesquisa para mais perto da verdade ou em direção a algo, o que significava que um número inquietante de problemas poderiam advir.[7]

            Anteriormente, já Kierkegaard alertava que, tornando-se a ciência um modo de vida, então esse seria o modo mais terrível de viver: “encantar todo o mundo e se extasiar com as descobertas e a genialidade, sem, no entanto, [o homem] conseguir compreender-se a si mesmo”.[8]

            No decorrer da 2ª Guerra Mundial, o mundo ocidental fica chocado com as práticas abusivas de médicos nazis que em nome da ciência, cometem as maiores atrocidades contra o ser humano em nome da ciência. Surge então o desenvolvimento de um código ético que se condensa com o nome da Bioética e formula-se aí também a idéia que a ciência não é mais importante que o homem. O progresso técnico deve ser controlado e acompanhar a consciência da humanidade sobre os efeitos que pode ter no mundo e na sociedade para que as novas descobertas e suas aplicações não fiquem sujeitas a todo o tipo de interesses.[9]

            Como o progresso não se reduz a questões científicas, muito pelo contrário, a Populorum Progressio, documento fundamental para o âmbito deste estudo, trouxe-nos importantes aportes: “Combater a miséria e lutar contra a injustiça, é promover não só o bem-estar mas também o progresso humano e espiritual de todos e, portanto, o bem comum da humanidade”.[10] Esta forma de progresso integral vem muito bem delineado no recente Compêndio de Doutrina Social da Igreja:

 

A humanidade compreende cada vez mais claramente estar ligada por um único destino que requer uma comum assunção de responsabilidades, inspirada em um humanismo integral e solidário: vê que esta unidade de destino é freqüentemente condicionada e até mesmo imposta pela técnica ou pela economia e adverte a necessidade de uma maior consciência moral, que oriente o caminho comum. Estupecfatos pelas multíplices inovações tecnológicas, os homens do nosso tempo desejam ardentemente que o progresso seja votado ao verdadeiro bem da humanidade de hoje e de amanhã. (n. 6)

 

 

            O remédio para os males e um falso progresso estão na caridade, porém, caridade na Verdade, ou seja, em Jesus Cristo. Se d’Ele não se tivesse afastado o homem, não teria o progresso sofrido tal desvio. Ao voltar-se para Deus, e valorizar o amor conforme o mandamento novo trazido por Jesus, o progresso se desenvencilhará de suas deturpações e produzirá os frutos mais excelentes. Tal como afirma Bento XVI na sua mais recente encíclica:

 

A partilha dos bens e recursos, da qual deriva o autêntico desenvolvimento, não é assegurada pelo simples progresso técnico e por meras relações de conveniência, mas pelo potencial de amor que vence o mal com o bem (cf. Rm 12, 21) e abre à reciprocidade das consciências e das liberdades. (Caritas in Veritate, n. 7)

VICTORINO DE ANDRADE, José. Aportes para o discernimento de um autêntico progresso: Da Populorum Progressio à Caritas in Veritate. Projecto de Mestrado em Teologia Moral. UPB. Escuela de Teología, filosofía y humanidades. Facultad de Teología, 2009. p. 3-5.


[1] JOÃO PAULO II. Visita pastoral à paróquia romana de São Clemente. Domingo, 2 de Dezembro de 1979. in: <www.vatican.va>.

[2] CORRÊA DE OLIVEIRA. Plinio. RCR. in: Catolicismo, nº100, 1959. p. 31.

[3] FERRATER MORA, José. Dicionário de Filosofia. Tradução de António José Massano e Manuel Palmeirim. Lisboa: Publicações Dom Quixote, 1978. p. 231.

[4] Populorum Progressio, n. 13.

[5] MONTINI, Giovanni Battista. The Christian in the Material World. Baltimore: Helicon, 1964. (tradução minha).

[6] RATZINGER, Joseph. Fé, Verdade, Tolerância. Traduções UCEDITORA: Lisboa, 2007. P. 71

[7] Cf. REALE, Giovanni. História da Filosofia: Do romanismo até nossos dias. V. 3. São Paulo: Paulus, 1991. p. 1046.

[8] Idem, p. 250.

[9] Cf. SÓNIA. Ética: Emergências Médicas – 2º ano. in: Bioética. Doc. Prefeitura de Araquara, 1997. p. 1.

[10] Populorum Progressio, n. 76.

A Igreja, Corpo Místico de Cristo, Esposa Mística de Cristo

Ignacio Montojo Magro, EP

“A verdadeira força da Igreja está em ser o Corpo Místico de Nosso Senhor Jesus Cristo” diz Plinio Corrêa de Oliveira (2002a: 147) no seu famoso ensaio “Revolução e Contra-Revolução”. Efetivamente, como ele acrescenta logo depois, não se explicaria a supervivência bimilenar desta instituição no meio da tantas perseguições, contrariedades e mesmo falhas de seus membros.

“Alios ego vidi ventos; alias prospexi animo procellas”[1], poderia Ela dizer ufana e tranqüila em meio às tormentas por que passa hoje. A Igreja já lutou em outras terras, com adversários oriundos de outras gentes, e por certo enfrentará ainda, até o fim dos tempos, problemas e inimigos bem diversos dos de hoje. (CORRÊA DE OLIVEIRA, 2002a, 145).

Esta misteriosa comparação da Igreja com um corpo é extraída das epístolas de São Paulo e seu principal desenvolvimento dá-se na Primeira Epístola aos Coríntios: basilica-sao-paulo-fora-muros

Porque, como o corpo é um todo tendo muitos membros, e todos os membros do corpo, embora muitos, formam um só corpo, assim também é Cristo. Em um só Espírito fomos batizados todos nós, para formar um só corpo, judeus ou gregos, escravos ou livres; e todos fomos impregnados do mesmo Espírito. Assim o corpo não consiste em um só membro, mas em muitos. Se o pé dissesse: “Eu não sou a mão; por isso, não sou do corpo”, acaso deixaria ele de ser do corpo? E se a orelha dissesse: “Eu não sou o olho; por isso, não sou do corpo”, deixaria ela de ser do corpo? Se o corpo todo fosse olho, onde estaria o ouvido? Se fosse todo ouvido, onde estaria o olfato? Mas Deus dispôs no corpo cada um dos membros como lhe aprouve. Se todos fossem um só membro, onde estaria o corpo? Há, pois, muitos membros, mas um só corpo. O olho não pode dizer à mão: “Eu não preciso de ti”; nem a cabeça aos pés: “Não necessito de vós”. Antes, pelo contrário, os membros do corpo que parecem os mais fracos, são os mais necessários. E os membros do corpo que temos por menos honrosos, a esses cobrimos com mais decoro. Os que em nós são menos decentes, recatamo-los com maior empenho, ao passo que os membros decentes não reclamam tal cuidado. Deus dispôs o corpo de tal modo que deu maior honra aos membros que não a têm, para que não haja dissensões no corpo e que os membros tenham o mesmo cuidado uns para com os outros. Se um membro sofre, todos os membros padecem com ele; e se um membro é tratado com carinho, todos os outros se congratulam por ele. Ora, vós sois o corpo de Cristo e cada um, de sua parte, é um dos seus membros”. (1Cor 12, 12-27)[2].

Mas, além disto, a referência a este mistério é uma constante nos seus escritos. Sirvam como exemplos as seguintes citações: “Ele [Jesus Cristo] é a Cabeça do corpo que é a Igreja” (Cl 1, 18); “O que falta às tribulações de Cristo, completo na minha carne, por seu corpo que é a Igreja” (Cl 1, 24); “O constituiu chefe supremo da Igreja, que é o seu corpo” (Ef 1, 22-23); “A uns ele constituiu apóstolos; a outros, profetas; a outros, evangelistas, pastores, doutores, para o aperfeiçoamento dos cristãos, para o desempenho da tarefa que visa à construção do corpo de Cristo” (Ef 4, 11-12); “Cristo é o chefe da Igreja, seu corpo, da qual ele é o Salvador (Ef 5, 23); “como Cristo faz à sua Igreja, porque somos membros de seu corpo” (Ef 5, 29).

 

Já desde os primeiros tempos do Cristianismo o conceito de Corpo Místico de Cristo foi objeto de comentário e desenvolvimento pelos Padres da Igreja. Santo Agostinho (apud CIC, 795), por exemplo, assim se referia a ele:

Congratulemo-nos, pois, e demos graças pelo fato de nos termos tornado não apenas cristãos, mas o próprio Cristo. Estais compreendendo, irmãos, a graça que Deus nos fez, dando-nos Cristo por Cabeça? Admirai e alegrai-vos: nós tornámo-nos Cristo. Com efeito, uma vez que Ele é a Cabeça e nós os membros, o homem completo é Ele e nós […]. A plenitude de Cristo é, portanto, a Cabeça e os membros. Que quer dizer: a Cabeça e os membros? Cristo e a Igreja.

Também São Tomás na Suma (III, q. 48, a. 2, ad 1) usou já no século XII a expressão Corpo Místico: “Cabeça e membros são, por assim dizer, uma só e mesma pessoa mística”. 

Como assinala Bover (1967: 484, tradução nossa) no seu estudo sobre a teologia de São Paulo, na introdução ao capítulo em que se estende sobre o tema, “o Corpo Místico de Cristo é, a maneira do corpo humano, um organismo espiritual que, unido a Cristo como a sua cabeça, vive a vida mesma de Cristo, animado pelo Espírito de Cristo”[3]. E acrescenta ainda no fim do mesmo: “Esta luz […] ilumina a Igreja, que se mostra aos nossos olhos mais divina[4]” (BOVER, 1967: 531). De fato, é conseqüência evidente de tudo isto – e que nos interessa para nosso estudo – que os atos da Igreja oficial são atos do próprio Cristo, o que os valoriza sem medida como assinala Pio XII (Encíclica Mystici Corporis, 91): “É preciso que nos acostumemos a ver na Igreja o próprio Cristo. Pois que é Cristo que vive na sua Igreja, por ela ensina, governa e santifica”. 

A Igreja é também Esposa Mística de Cristo. Esta doutrina tem uma intima ligação com a do Corpo Místico. Efetivamente, “de todas as relações entre os homens […] nenhuma prende de maneira mais forte do que o vínculo do Matrimônio […] [e Deus quis assim] dar uma imagem dar uma imagem de Sua íntima e estreita união com a Igreja, de Seu imenso amor para conosco” (CATECISMO ROMANO, 1962: 333). Por isso, como nos ensina sinteticamente o Catecismo (796):

A unidade de Cristo e da Igreja, Cabeça e membros do Corpo, implica também a distinção entre ambos, numa relação pessoal. Este aspecto é, muitas vezes, expresso pela imagem do esposo e da esposa. O tema de Cristo Esposo da Igreja foi preparado pelos profetas e anunciado por João Batista. O próprio Senhor Se designou como “o Esposo” (Mc 2, 19). E o Apóstolo apresenta a Igreja e cada fiel, membro do seu Corpo, como uma esposa “desposada” com Cristo Senhor, para formar com Ele um só Espírito. Ela é a Esposa imaculada do Cordeiro imaculado que Cristo amou, pela qual Se entregou “para a santificar” (Ef 5, 26), que associou a Si por uma aliança eterna, e à qual não cessa de prestar cuidados como ao Seu próprio Corpo.

E conclui Santo Agostinho (apud CIC, 796):

Eis o Cristo total, Cabeça e Corpo, um só, formado de muitos […]. Quer seja a Cabeça que fale, quer sejam os membros, é Cristo que fala: fala desempenhando o papel de Cabeça (ex persona capitis), ou, então, desempenhando o papel do Corpo (ex persona corporis). Conforme ao que está escrito: “Serão os dois uma só carne. É esse um grande mistério; digo-o em relação a Cristo e à Igreja” (Ef 5, 31-32). E o próprio Senhor diz no Evangelho: “Já não são dois, mas uma só carne” (Mt 19, 6). Como vedes, temos, de algum modo, duas pessoas diferentes; no entanto, tornam-se uma só na união esponsal […] “Diz-se ‘Esposo’ enquanto Cabeça e ‘esposa’ enquanto Corpo”.

 Efetivamente o matrimonio entre o homem e a mulher não é senão “um mistério, quer dizer um sinal sagrado daquele vínculo sacratíssimo que une Cristo Nosso Senhor à Igreja” (CATECISMO ROMANO, 1962: 333). 

Assim, devemos considerar o matrimônio sacramental como um símbolo desta sublime união, e não o contrário, pois o mais alto é o esponsal de Cristo com a Igreja, simbolizado na união matrimonial natural elevada à categoria de sacramento, como assevera Sertillanges (1946: 268-269, tradução nossa):

São Paulo nos diz que [o matrimônio] significa a união de Cristo com a Igreja, e que, em conseqüência, tende, quanto nele está, a garantir os efeitos desta união e a causa disto é um grande sacramento. […] Há nele um símbolo, posto que a doação recíproca dos esposos com objeto de formar uma vida completa é a imagem da união, mais ampla, de toda a humanidade com seu Redentor.[5]

            Esta eloqüente aplicação da referida figura nos pode fazer bem entender o valor dos atos da Igreja e quanto têm de aceitável e agradável à Divina Majestade como os de uma esposa amantíssima e perfeita (RAMIREZ, 1973: 1139).

 

 

MONTOJO MAGRO, Ignacio et all. O fundamento teológico da eficácia dos sacramentais. Centro Universitário Ítalo Brasileiro – Curso de Teologia. São Paulo, 2009. p. 35-37.


[1]Cícero, Familiares, 12, 25, 5: “Vi outros ventos e lutei contra outras tempestades” (Tradução nossa)

[2]A fim de seguir o critério habitual usado nos trabalhos de pesquisa teológica para citação das Sagradas Escrituras, colocaremos apenas a sigla do livro bíblico citado seguida do capítulo e do/s versículo/s (Ex. Mc 1, 35-36). A Bíblia Sagrada usada para tal é a que consta nas referências bibliográficas, a não ser que seja uma citação bíblica dentro duma outra citação, caso no qual seguiremos evidentemente a mesma. Este critério foi seguido também pela anterior turma de Teologia deste centro.

[3]Texto original em espanhol: “El Cuerpo Místico de Cristo es, a manera del cuerpo humano, un organismo spiritual que, unido a Cristo como a su cabeza, vive la vida misma de Cristo, animado por el Espíritu de Cristo”

[4]Texto original em espanhol: “Esta luz […] ilumina la Iglesia, que se muestra a nuestros ojos más divina”

[5]Texto original em espanhol: “San Pablo nos dice que significa la unión de Cristo con la Iglesia, y que, por consiguiente, tiende, cuanto en él está, a asegurar los efectos de esta unión y que a causa de esto, es una gran sacramento. […] Hay en él un símbolo, puesto que la donación recíproca de los esposos con objeto de formar una vida completa es la imagen de la unión, más vasta, de toda la humanidad con su Redentor”.

A eficácia do ministério sacerdotal

hostiaMons. João Clá Dias, EP

Ressalta Dom Chautard que a um sacerdote santo corresponde um povo fervoroso; a um sacerdote fervoroso, um povo piedoso; a um sacerdote piedoso, um povo honesto; a um sacerdote honesto, um povo ímpio.[1] Grande é, pois, o papel da virtude do ministro, para o êxito de seu ministério.

No que respeita à aplicação do valor da Santa Missa, com finalidade propiciatória, é que se pode falar de sua eficácia subjetiva, dependente das disposições de quem a celebra e daqueles aos quais ela é aplicada, como explica São Tomás:

Na satisfação atende-se mais à disposição de quem oferece do que à quantidade da oferenda. Por isso, o Senhor observou, a respeito da viúva que oferecia duas moedinhas, que ela “depositou mais que todos os outros”. Ainda que a oferenda da Eucaristia, quanto à sua quantidade, seja suficiente para satisfazer por toda a pena, contudo ela tem valor de satisfação para quem ela é oferecida ou para quem a oferece, conforme a medida de sua devoção, e não pela pena inteira.[2]

A respeito deste trecho do Doutor Angélico, Robert Raulin faz o seguinte comentário: “Seria perniciosa ilusão acreditar que o ofertante está dispensado do fervor, sob pretexto de que Cristo, oferecendo-Se na Missa, satisfez plenamente por todos os pecados do mundo”.[3]

Outro argumento, ainda, apresenta o Aquinate, para vincular a eficácia da Eucaristia à devoção dos que se beneficiam do valor infinito deste augusto Sacramento:

A Paixão de Cristo traz proveito a todos para a remissão da culpa, a obtenção da graça e da glória, mas o efeito só é produzido naqueles que se unem à Paixão de Cristo pela fé e caridade. Assim, também este Sacrifício, que é o memorial da Paixão do Senhor, só produz efeito naqueles que se unem a este Sacramento pela fé e caridade. […] Aproveitam, no entanto, mais ou menos, segundo a medida de sua devoção.[4]

 

A especial obrigação dos sacerdotes em trilhar o caminho da santidade é reafirmada no decreto Presbyterorum ordinis: “Estão, porém, obrigados por especial razão, a buscar essa mesma perfeição visto que, consagrados de modo particular a Deus pela recepção da Ordem, se tornaram instrumentos vivos do sacerdócio eterno de Cristo”.[5] E de seu aperfeiçoamento pessoal, ensina o mencionado documento conciliar, decorrerá maior ou menor abundância de frutos de sua ação pastoral:

A santidade dos presbíteros muito concorre para o desempenho frutuoso do seu ministério; ainda que a graça de Deus possa realizar a obra da salvação por ministros indignos, todavia, por lei ordinária, prefere Deus manifestar as suas maravilhas por meio daqueles que, dóceis ao impulso e direção do Espírito Santo, pela sua íntima união com Cristo e santidade de vida, podem dizer com o Apóstolo: “Se vivo, já não sou eu, é Cristo que vive em mim” (Gl 2, 20).[6]

 

Ante esta realidade, o sacerdote tem dois grandes deveres. Um para consigo mesmo e outro para com o povo, pois ambos se beneficiam dos frutos da Santa Missa, especialmente o celebrante, conforme o grau de fervor ou devoção.[7]

Segundo alguns teólogos, este fruto especialíssimo da Santa Missa, destinado ao sacerdote, é maior do que o destinado aos demais participantes do Sacrifício Eucarístico, ou àqueles aos quais se aplica o seu valor. É neste manancial inesgotável da misericórdia de Deus que cada ministro ordenado deve ir buscar as melhores graças para a sua santificação, assim como a daqueles que lhe estão confiados:

Por causa do poder do Espírito Santo, que pela unidade da caridade comunica os bens dos membros de Cristo entre si, acontece que o bem particular presente na Missa de um bom sacerdote se torna frutuoso para outras pessoas.[8]

 

Dessa maneira, corresponderá ele à altíssima dignidade de seu ministério, segundo dizia o Santo Cura d’Ars:

Sem o sacramento da Ordem, não teríamos o Senhor. Quem O colocou ali naquele sacrário? O sacerdote. Quem acolheu a vossa alma no primeiro momento do ingresso na vida? O sacerdote. Quem a alimenta para lhe dar a força de realizar a sua peregrinação? O sacerdote. Quem há de prepará-la para comparecer diante de Deus, lavando-a pela última vez no sangue de Jesus Cristo? O sacerdote, sempre o sacerdote. E se esta alma chega a morrer [pelo pecado], quem a ressuscitará, quem lhe restituirá a serenidade e a paz? Ainda o sacerdote. […] Depois de Deus, o sacerdote é tudo! […] Ele próprio não se entenderá bem a si mesmo, senão no Céu.[9]

CLÁ DIAS, João. A Santidade do sacerdote à luz de São Tomás de Aquino. in: LUMEN VERITATIS. São Paulo: Associação Colégio Arautos do Evangelho. n. 8, jul-set 2009. p. 19-21.


[1] Cf. CHAUTARD, OCSO, Jean-Baptiste. A Alma de todo o apostolado. Porto: Civilização, 2001, p. 34-35.

[2] S Th III, q. 79, a. 5, Resp.

[3] In: AQUINO, São Tomás de. Suma Teológica. São Paulo: Loyola, 2006, v. 9, p. 358.

[4] S Th III q. 79, a. 7, ad 2.

[5] PO, n. 12.

[6] Idem.

[7] Cf. ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología Moral para Seglares. Madrid: BAC, 1994, v. 2, p. 158.

[8] S Th III q. 82, a. 6, ad 3.

[9] Palavras de São João Maria Vianney, citadas pelo Papa Bento XVI na Carta para Proclamação do Ano Sacerdotal, 16 jun. 2009.